venerdì, 29 Marzo 2024

SMARTWORKING, REGOLE E PROSPETTIVE, Alessandra Lomonaco: «Obiettivo: aumentare la produttività, innovare e coinvolgere»

Sommario

Con lo smartworking, il futuro del lavoro si giocherà sul valore delle persone – il cosiddetto capitale umano – e su nuove competenze, dalla capacità di adattamento alla comunicazione digitale al remote management. «In un contesto in continua evoluzione, dominato dallo sviluppo tecnologico, serve la capacità di rimettersi costantemente in discussione, abbandonando ogni rendita di posizione, perché niente è immutabile e consolidato», dice Alessandra Lomonaco, CEO e founder di Huky srl, startup composta da team di esperti in strategia, digital, design e finance.

«La pandemia ha posto in luce il bisogno e l’urgenza di soft skills, quelle competenze trasversali che riguardano più il valore umano degli individui rispetto a quelle specifiche acquisibili in un’aula di università. Nel nuovo contesto lavorativo diventa quindi fondamentale la capacità di comprendere i cambiamenti in corso, della gestione dei progetti e dei team da remoto, con nuovi strumenti e tecnologie, tenendo presente il benessere e la motivazione delle persone. Sfide complesse che stimolano un modello di leadership che sappia guidare team in remoto, motivare senza perdere di vista gli obiettivi organizzativi e la misurazione dei risultati».

A livello europeo è stato sviluppato un framework che pone l’accento sull’imprenditorialità come competenza chiave per il life long learning…

«La capacità di “intraprendere” o di diventare imprenditori sarà importantissima. L’imprenditorialità è la capacità di agire in base alle opportunità e alle idee per creare valore per gli altri. Il valore creato può essere sociale, culturale o finanziario. Si può diventare imprenditoriali in qualsiasi ambito: a scuola, sul posto di lavoro, in azioni rivolte alla comunità in cui si vive. Prendere l’iniziativa, saper coinvolgere altre persone intorno a un’idea o un progetto, sapere raccogliere dei fondi per avviare un’impresa, sono abilità sempre più importanti, per giovani, donne e over 40. La definirei la competenza del futuro, perché racchiude tante abilità trasversali e competenze specifiche (tecnologiche, finanziarie, commerciali) che sono alla base di creazione di valore per se stessi e per gli altri». 

Smartworking, una parola che è entrata nella vita di molte persone. Ma così com’è, di certo, non potrà essere il modello futuro…

«Ha permesso a molte aziende la continuità operativa e per molti ha significato poter proseguire il lavoro d’ufficio dalla propria abitazione. Lo si è chiamato smartworking anche se sappiamo ormai tutti che sarebbe più corretto chiamarlo telelavoro. Le differenze, infatti, tra queste due modalità organizzative sono notevoli. Il Politecnico di Milano definisce lo smartworking “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di libertà e indipendenza nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. È quindi il risultato di un uso sapiente e consapevole dell’innovazione digitale a supporto di approcci strategici che puntano sulla collaborazione tra le persone e tra le organizzazioni. In tutto questo la tecnologia gioca un ruolo chiave nel connettere persone, spazi, oggetti ai processi di business. L’obiettivo è aumentare la produttività, innovare, coinvolgere persone e gruppi di lavoro. Con questa filosofia manageriale, si restituisce alle persone e alle organizzazioni una maggiore flessibilità nella scelta degli spazi, degli orari di lavoro e degli strumenti da utilizzare per svolgere le proprie attività lavorative. Significa introdurre approcci di empowerment, di delega e responsabilizzazione delle persone sui risultati, per favorire la crescita dei talenti e l’innovazione diffusa».

Come si possono aiutare le aziende a seguire al meglio questo cambiamento?

«Nella mia abbiamo avviato il progetto Smartnetwork, che nasce dall’unione di due parole: smartworking e networking. I grandi mutamenti avvengono con la collaborazione e l’ispirazione di realtà che condividono best practices in questo ambito. Noi lo facciamo mettendo a fattor comune le buone idee in tema di organizzazione del lavoro. Crediamo che il lavoro smart derivi dalla combinazione di tre fattori: competenze, digitale e benessere delle persone. Ed è su questi fattori che agiamo, diffondendo innovazione e un nuovo mindset nelle aziende».

Quali saranno i modelli di business più promettenti?

Lo stato delle startup in Italia non ci fa onore: secondo il 360Entrepreneurial Index realizzato dal Centro Studi di Digital360 l’Italia è solo in 19esima posizione su 28 Paesi Ue: qual è il vero problema nel nostro Paese?

«Qui scarseggia una vera cultura delle startup. Molte realtà innovative vanno all’estero, dove trovano un ecosistema dell’innovazione non frammentato come quello del nostro Paese: vale a dire competenze di business che si uniscono a competenze tecniche, finanziamenti, una propensione al rischio che è insita nella cultura di chi fa innovazione. Spesso si confonde l’azienda neo costituita con la startup, ma in realtà la startup non è un’azienda appena nata che è destinata a rimanere piccola media impresa. È un’azienda che ha in sé la potenzialità di scalare innovando un mercato, attraverso nuovi prodotti, tecnologie, accessibilità e fruibilità dei servizi stessi».

Però gli investimenti in startup da noi sono ancora molto bassi rispetto agli altri Paesi

«Il 2020, che nonostante la pandemia è stato un anno positivo per il mondo startup, ha portato 780,5 milioni nelle casse di queste aziende per un totale di 306 aumenti di capitale. Nel 2019 gli investimenti erano stati pari a 605 milioni in 244 operazioni. Il problema, tuttavia, rimane la scarsità di exit nel nostro Paese, vale a dire disinvestimenti da parte di Venture Capitalists. Senza la prospettiva reale di poter realizzare delle “exit”, difficilmente gli investitori sono disposti a finanziare una startup. E questo è uno dei problemi principali che hanno le nostre startup».

Per le donne qual è la situazione attuale? 

«Le startup fondate da donne sono ancora troppo poche: sono infatti solo 12,9% delle oltre 12 mila iscritte nella sezione speciale del Registro delle imprese (dati MISE – Aprile 2021). I motivi di questo gap di genere nel mondo dell’imprenditoria innovativa sono principalmente di natura culturale. Ma c’è anche un tema legato ai finanziamenti: secondo una ricerca della società di consulenza BCG, le società fondate o co-fondate da donne ricevono in media meno della metà di finanziamenti VC rispetto alle società fondate da imprenditori uomini. Nonostante questa disparità, le startup in rosa hanno prestazioni migliori nel tempo, generando il 10% in più di entrate in un periodo di cinque anni. Questa disparità di trattamento spesso deriva da pregiudizi da parte degli investitori relativamente, per esempio, alla preparazione tecnica e di business delle donne: presumono, in molti casi, che le imprenditrici non abbiano le conoscenze di base per gestire un’azienda. Gli uomini vengono finanziati in base al loro “potenziale”, mentre le donne in base a ciò che hanno dimostrato di saper fare (e spesso questo non è nemmeno sufficiente). Questo complica molto le possibilità di raccogliere finanziamenti per molte imprenditrici e si traduce, di fatto, in un freno allo sviluppo di imprenditoria femminile».

Trasformazione digitale del Paese, riorganizzazione del lavoro, Banda larga e 5G, sono asset strategici su cui l’Italia dovrà investire per una ripresa e una crescita rapida post pandemia e per immaginare un Paese diverso nel prossimo futuro

«La pandemia ha posto all’attenzione di tutti l’enorme potenziale che la digitalizzazione porta con sé: è entrata nella vita di tutti, aziende e P.A. hanno capito che è qualcosa di non più procrastinabile. La trasformazione digitale è l’occasione per ammodernare le aziende e il Paese, per sostenere l’economia, la crescita, il lavoro e il nostro futuro. È diventato quindi evidente che banda ultra-larga e il 5G sono investimenti cruciali per aumentare la fruibilità della rete in ogni area del nostro territorio e renderla quindi accessibile a tutte le scuole, le famiglie, le aziende del Paese. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) include un corposo pacchetto di riforme per contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Sui 222,1 miliardi di euro previsti, il 27 per cento del Piano è dedicato alla digitalizzazione».

Nello stesso documento ci sono 22,4 miliardi nel capitolo “Inclusione e coesione”. Ma nello specifico quali investimenti si faranno e in che campo?

«Obiettivo della Missione “Inclusione e coesione” del PNRR è facilitare la partecipazione al mercato del lavoro, anche attraverso la formazione, rafforzare le politiche attive del lavoro e favorire l’inclusione sociale. Vengono stanziati 22,4 miliardi, di cui 19,8 dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 2,6 dal Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio. La Missione si esplicita in tre componenti: politiche per il lavoro – 6,66 miliardi (potenziamento politiche attive per il lavoro, rafforzare la creazione di imprese femminili e introduzione della certificazione della parità di genere, promuovere l’acquisizione di nuove competenze da parte dei giovani). Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore – 11,17 miliardi di euro (rigenerazione urbana e housing sociale, sport e inclusione sociale, servizi sociali, disabilità e marginalità sociale). Interventi speciali per la coesione territoriale – 1,98 miliardi».

Altro punto di attenzione per guidare la trasformazione del lavoro è la capacità di incrementare il grado di occupabilità delle persone… come?

«Il PNRR non riguarda solo investimenti infrastrutturali, di transizione ecologica, istruzione e ricerca. Come detto, in gioco c’è una serie di riforme per l’inclusione sociale, con forti investimenti sulle politiche del lavoro, riforma dei centri per l’impiego, il reinserimento lavorativo e sociale dei cittadini. Le politiche per il lavoro sono centrali, con il miglioramento della formazione, dell’occupabilità e del reinserimento nel mercato del lavoro di disoccupati, inoccupati, beneficiari del reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, percettori di Naspi e Cigs. Il Governo ha stanziato 6 miliardi di euro per le politiche attive del lavoro e sostegno all’occupazione. L’obiettivo strategico di questa componente è aumentare il tasso di occupazione, facilitando le transizioni lavorative e dotando le persone di formazione adeguata; ridurre il mismatch di competenze; aumentare quantità e qualità dei programmi di formazione dei disoccupati e dei giovani, in un contesto di investimento anche sulla formazione continua degli occupati».