Allarme sostenibilità: nonostante l’impatto della pandemia, il consumo di tessili in Europa ha in media il quarto maggiore impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici dal punto di vista del ciclo di vita globale (dati 2020). Terza area di consumo, con il terzo maggiore impatto sull’uso di acqua e suolo, e quinta in termini di utilizzo di materie prime ed emissioni di gas serra. Gli effetti ambientali derivano dalla coltivazione e dalla produzione di fibre naturali – come cotone, canapa e lino – e di fibre sintetiche.
Ma non è finita qui. La distribuzione e la vendita al dettaglio, infatti, sono responsabili delle emissioni dei trasporti e dei rifiuti di imballaggio. Non da ultimo, i tessili contribuiscono a quantità significative di rifiuti. Alla fine della loro vita, infatti, spesso finiscono in quelli generici e vengono inceneriti o gettati in discarica.
«Progettare per la circolarità è lo sviluppo più recente nel design per la sostenibilità. Più che di un ciclo sostenibile, però, parlerei di un ciclo economico responsabile», dice Erminia D’Itria PhD al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano.
«Ad oggi innestare processi completamente sostenibili nella filiera, richiede un approccio sistemico ed infrastrutturale che ancora non esiste. In questo contesto, sicuramente diventa fondamentale l’azione del designer, basti pensare che l’80% degli impatti ambientali sono conseguenza di scelte progettuali che non applicano una visione sistemica del prodotto e dell’ambiente e degli utenti con cui andrà ad interagire durante i suoi cicli di vita».

Che cosa si intende per ciclo di un prodotto e di una economia?
«Per ridurre l’impatto ambientale dei tessili in modo sostenibile, è fondamentale passare a modelli di business circolari, compreso il design circolare. Ciò richiederà l’innovazione del modello tecnico, sociale e di business, nonché un cambiamento comportamentale e sul piano del supporto delle policy dall’alto. Mentre i percorsi precedenti si concentravano sul “rallentamento del ciclo”, l’ultimo percorso sul riciclaggio e il riutilizzo dei materiali “chiude il ciclo”. Questi nuovi modelli di mercato propongono un approccio olistico al business e un’opportunità per andare oltre la logica capitalista del profitto fine a se stesso. I modelli di business circolari costruiti attorno alla raccolta e alla rivendita di tessuti mirano a prolungarne la vita oltre il primo utente. Degli esempi sono le piattaforme online per l’acquisto e la vendita di vestiti cosiddetti pre-loved, che sono sempre più popolari tra consumatori e brand. I nuovi professionisti devono avere la capacità di spostare e controllare la sostenibilità lungo l’intera catena di fornitura e valore».
Quindi l’economia circolare può garantire una qualità superiore, una maggiore durata, un migliore utilizzo dei materiali sostenibili e migliori opzioni per il riutilizzo e il riciclaggio…
«Non parlerei di materiali sostenibili in assoluto. Ci sono sicuramente materiali meno impattanti o che possono, in un’ottica di circolarità, essere reinseriti più facilmente all’interno dei cicli di produzione. Ma nessun materiale è privo di criticità o per caratteristiche intrinseche della fibra o magari legate ai processi produttivi. Faccio un esempio: credo che a tutti sia capitato di imbattersi, in una delle tante iniziative Green di take-back di qualche grande catena, “portaci il tuo capo usato, noi gli ridiamo vita e per te uno sconto”. Ecco, la semplicità del processo descritto da questa frase non esiste nella realtà. Gli abiti da materiali riciclati non sono così facili da ottenere. Infatti, reimmettere abiti usati nei cicli di produzione moda è purtroppo una pratica ancora difficile. Penso agli alti costi per le aziende, legati alla mancanza di un’infrastruttura di riciclo reale, ma anche al fatto che molte volte riciclare determinati tessuti è del tutto impossibile. Non esiste oggi un sistema scalabile che permetta di separare le fibre di cotone da quelle di poliestere. Questo è il mix più utilizzato dalle aziende di ultra e fast fashion per i propri capi. La soluzione meno impattante che abbiamo per recuperare queste fibre è sminuzzarle per trasformarle in imbottiture per cuscini e divani».

Quale dovrebbe essere il know-how di un’azienda che voglia eco-progettare in modo sostenibile?
«Sicuramente chiunque voglia approcciarsi alla progettazione sostenibile, deve farlo adottando una prospettiva sistemica che tenga conto di tutti i fattori e gli attori coinvolti lungo la filiera. Molto spesso assisto a interventi puntuali delle aziende, che sicuramente possono essere ottimi punti di partenza, ma che non sono sicuramente quello di arrivo. Non basta sostituire un materiale con uno meno impattante se poi il sistema di produzione rimane ancorato a vecchi paradigmi lineari. Oppure molto spesso non si considera che esiste una questione, quella sociale, particolarmente sensibile nel settore della moda e dei suoi lavoratori, ma anche delle comunità e dei territori in cui un’azienda nasce e di cui diventa la portavoce attraverso uno specifico know how. I concetti di trasparenza, tracciabilità e consapevolezza dipendono dalle scelte e dai comportamenti delle aziende e sono certamente dipendenti da fattori sociali e culturali, anche economici e legati al brand».
In che modo è coinvolto il consumatore?
«Va considerato attentamente il nuovo ruolo di quelli consapevoli, diventati attori di un cambiamento positivo, che agiscono in un’epoca che cerca di uscire dalla produzione di massa cercando i valori intrinsechi dell’oggetto con cui instaurare un legame che possa poi durare nel tempo o portarli, alla fine del loro ciclo di vita, a dare una seconda possibilità: pensiamo ai nuovi e crescenti fenomeni dei marketplace di second-hand o ai movimenti di take-care e riparazione dei propri capi».
Quali sono le direttive europee a proposito degli obiettivi di sostenibilità da raggiungere?
«Credo sia importante citare che, oltre alle iniziative già in atto a favore della trasformazione sostenibile come il Green Deal o il Piano d’Azione per la Circolarità, è stata da pochissimo pubblicata la nuova strategia per il tessile europeo. Questo documento avrà ricadute importanti per il settore della moda in quanto detterà la linea nei prossimi anni per l’implementazione di pratiche sostenibili. In particolare, la strategia mira a garantire che entro il 2030 i prodotti tessili immessi sul mercato del vecchio continente siano progettati con un approccio che mira alla longevità e/o riciclabilità. L’obiettivo è porre fine all’odierna cultura del “fast fashion”. Va riportato come la Strategia si concentri però principalmente sulle misure relative alla parte ambientale della sostenibilità. Esempi di quanto promosso dalla Commissione sono: la volontà di favorire l’adozione dei principi dell’Ecodesign attraverso l’elaborazione di linee guida e requisiti obbligatori per la progettazione per la durabilità, riparabilità e riciclabilità; il divieto di distruzione dei prodotti invenduti e l’obbligo per le aziende di pubblicare le quantità di materiale tessile distrutto; l’estensione della responsabilità dei brand dopo la vendita, con l’obbligo di pagamento di una tassa per la gestione del fine vita dei propri prodotti».

In che modo il PNRR interviene nella sostenibilità?
«In ambito nazionale, grazie ai fondi stanziati dal Recovery Fund sarà possibile finanziare il programma di riforme e gli investimenti mirati al rilancio economico e sociale del nostro Paese, con un focus particolare sugli obiettivi di transizione verso un modello di sviluppo sostenibile e in chiave digitale. Quindi, il PNRR ha sicuramente delle ricadute per il settore moda che spaziano dal fornire incentivi in favore del cambiamento verso nuovi modelli di business delle imprese a supporto della circolarità fino alla possibilità di accedere a risorse e contributi per investimenti sostenibili in macchinari, impianti e attrezzature per produzioni di avanguardia tecnologica che minimizzino impatti e sprechi».
Quali sono i drivers, le sfide e i possibili sviluppi futuri di un settore moda che guardi alla sostenibilità?
«Oggi il settore moda si trova ad affrontare diverse sfide legate al tema della sostenibilità, che sicuramente potranno essere trasformate in opportunità per la trasformazione del settore. Internamente i processi e il continuo sfruttamento delle risorse del Pianeta portano l’industria a scontrasti con i nuovi paradigmi economici e legislativi che spingono sempre più verso un modello Green e resiliente, che contrasti i cambiamenti climatici e il degrado ambientale. Esternamente i brand devono assorbire le pressioni dei consumatori che iniziano a comprendere il valore di ciò che acquistano e come le loro scelte contribuiscano al benessere umano, arrivando a sviluppare una sensibilità differente verso i prodotti che scelgono. Inoltre, oggi le aziende e i marchi sono continuamente giudicati, osservati e valutati da movimenti attivisti globali, come Fashion Revolution, che utilizzano i propri canali social per promuovere approcci più sostenibili e trasparenza nella responsabilità dei marchi all’interno dell’industria della moda. Mi aspetto che l’unione di queste forze, sia endogene sia esogene, possano essere incanalate per diventare catalizzatrici di un modello industriale sostenibile, che tenga conto e sappia bilanciare i comportamenti e le scelte strategiche operate dalle aziende per implementare il benessere, andando oltre una visione diffusa di sacrificare la propria capacità di crescita e produrre profitto». ©
Arianna Francesca Brasca
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