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domenica, 4 Giugno 2023

Con il greenshoring le imprese si tutelano da guerra e pandemia

DiArianna Francesca Brasca

7 Luglio 2022

Il greenshoring, la versione green del rientro a casa delle aziende precedentemente delocalizzate, è la risposta degli Stati allo sconvolgimento delle catene globali del valore: le tensioni nello scacchiere geopolitico, la pandemia che non accenna a ritirarsi e la necessità per i mercati di monitorare l’impatto ambientale ne influenzano la riorganizzazione geografica e strategica. 

Tutti questi shock provocano un’impennata della rilocalizzazione delle attività produttive nei Paesi di origine. Il reshoring, iniziato con la crisi finanziaria del 2008-2009 e culminato oggi nelle conseguenze della guerra russo-ucraina, non segna l’abbandono della globalizzazione, quanto un’importante riorganizzazione dei processi industriali, al centro di molte iniziative governative.

L’America punta sul greenshoring per l’indipendenza energetica

Con il Defense Production Act (DPA), il Presidente Biden intende accelerare la produzione domestica di energie pulite. Parallelamente, l’amministrazione statunitense sfrutta le risorse federali per stimolare una maggiore capacità di produzione interna di tecnologie per il solare. Più nello specifico, il Dipartimento dell’Energia americano intende utilizzare il DPA per espandere rapidamente la fabbricazione domestica di moduli fotovoltaici, pompe di calore, elettrolizzatori e trasformatori.

Queste misure sono funzionali a stimolare la domanda fino a un gigawatt di pannelli solari di produzione USA nel breve termine, fino a 10 gigawatt nel prossimo decennio. La volontà del Governo a stelle e strisce punta a ridurre nel medio periodo la dipendenza del Paese dalla Cina per le tecnologie essenziali alla transizione energetica, favorendo la rilocalizzazione di alcune produzioni e in particolare il local sourcing di tecnologie e prodotti precedentemente realizzati all’estero.

Anche l’Europa sceglie il greenshoring

Di qua dell’Atlantico, il Regno Unito, con il suo “Reshore UK”, incoraggia il rientro delle attività produttive trasferite in Paesi altri, mentre in Francia il Ministero dell’Economia e delle Finanze mette a disposizione delle aziende un software per l’autovalutazione sul grado di preparazione al reshoring.

Anche l’Italia spinge le aziende al rimpatrio, con politiche strettamente regionali. È il caso dell’Emilia-Romagna che riporta a casa Giesse, Beghelli, Wayel e Piquadro. I settori coinvolti dal fenomeno sono dunque prettamente la meccanica e la moda, con un ritorno maggiore dall’Asia, nello specifico, dalla Cina. Non da meno il Friuli Venezia Giulia, che, tramite incentivi come l’iniziativa “Rilancimpresa”, attira capitali da parte di quelle aziende che intendono ritornare in Italia investendo nel territorio, garantendo un vantaggio in termini occupazionali per l’intera Regione.

Tra le motivazioni alla rilocalizzazione delle attività produttive vi è la necessità di avere catene del valore più green e sostenibili: avvicinando fornitori e stabilimenti al consumatore finale le aziende riducono le emissioni, con il 60% dell’utenza che afferma di voler trasferire parte della propria produzione asiatica in Europa o negli Stati Uniti entro i prossimi tre anni. Agilità e flessibilità sono i fattori chiave per l’impostazione della supply chain, a scapito di soluzioni più comode, a minor costo e più incerte sul lungo periodo. 

Il fattore che spinge più sui rimpatri è infatti quello geopolitico. Con la crisi da Covid-19 sono emerse le difficoltà portate da catene di fornitura lunghe e complesse. In queste settimane, con l’incremento dei prezzi delle materie prime provocato dalla guerra in Ucraina, l’effetto delle sanzioni economiche e le tensioni politiche è evidente come la tutela dai rischi della delocalizzazione produttiva sia in cima alle agende di molti Paesi. 

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Arianna Francesca Brasca

LinkedIn: @AriannaFrancescaBrasca

Credits ©Kelly Lacy via Canva.com

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