lunedì, 2 Giugno 2025

Trebbi, Le Royale PR: «L’AI come leva strategica per la credibilità»

Sommario
AI e PR credibilità

In un contesto mediatico sempre più esposto a manipolazioni e automatismi, proteggere la reputazione aziendale richiede oggi un uso consapevole degli strumenti di intelligenza artificiale (AI).

I Large Language Models (LLM), introdotti su larga scala a partire dal 2023, non hanno soltanto migliorato la produttività interna delle aziende, ma stanno incidendo in profondità sulla strategia con cui i brand costruiscono la propria reputazione, reagiscono alle crisi e presidiano lo spazio pubblico. Secondo l’ultimo rapporto Global PR Survey 2024 pubblicato da PRovoke Media, il 61% dei professionisti del settore dichiara di utilizzare strumenti di AI per attività di content creation, mentre oltre il 40% li impiega in modo sistematico per l’analisi dei trend, il media monitoring e la targetizzazione delle relazioni stampa.

In parallelo, cresce il livello di complessità del contesto informativo. Il numero di contenuti falsi o fuorvianti generati da AI è aumentato del 900% tra il 2022 e il 2024, secondo l’EU DisinfoLab, mentre i deepfake iniziano a coinvolgere anche figure apicali di aziende quotate. In questo scenario, la capacità di proteggere e valorizzare il capitale reputazionale si afferma come uno dei principali driver competitivi per le imprese, soprattutto in settori regolamentati, ad alta esposizione pubblica o ad alta sensibilità sociale.

«Oggi le PR non possono più permettersi di reagire: devono anticipare», dice Simone Trebbi, co-fondatore di Le Royale PR. «L’adozione dell’AI non è solo una questione di efficienza: è una leva strategica per costruire credibilità in uno spazio in cui la verità è sempre più difficile da affermare».

Mentre le istituzioni europee discutono di regolamentazione e trasparenza algoritmica, e il mondo delle imprese si interroga su come misurare l’impatto economico della reputazione, le agenzie di comunicazione sono chiamate a un cambio di passo: governare la narrazione con strumenti tecnologici, ma anche con metodo, visione e accountability.

Quanto l’intelligenza artificiale sta modificando il vostro modo di fare comunicazione?

«Ha già cambiato le dinamiche di tantissimi settori, e le PR non fanno eccezione. Anzi, l’introduzione di LLM ha avuto un impatto rapido, molto diretto e positivo fin da subito nel Mondo delle public relations. Il primo approccio ha naturalmente riguardato la scrittura di comunicati stampa, per poi espandersi ad altri aspetti come la targetizzazione delle comunicazioni e dei giornalisti, il media training e l’elaborazione dei dati.

Per la nostra esperienza, l’unico punto veramente debole dell’AI nelle PR riguarda il monitoraggio delle pubblicazioni. La nostra fortuna è stata quella di nascere, come realtà, in parallelo all’introduzione su larga scala delle prime AI. La loro immediata adozione è stata quindi un processo del tutto naturale e non forzato. Nel nostro modo di fare comunicazione, l’AI è quindi un alleato prezioso quando si tratta di generare input e idee e ha velocizzato notevolmente i processi più ripetitivi, lasciando di fatto quasi invariata (o migliorandola) la parte più creativa del lavoro».

Come si combina nella vostra attività la comunicazione tradizionale umana con l’uso di strategie digitali e strumenti AI?

«Dopo il comprensibile entusiasmo iniziale, ora il Mercato delle PR sta attraversando una fase di maturità nell’adozione dell’AI. Il grande valore apportato dall’intelligenza artificiale è innegabile, soprattutto nella fase preparatoria e organizzativa.

Lavoriamo con grandi quantità di dati e di ricerche, molto spesso con l’obiettivo di approfondire o anticipare trend mediatici per le imprese che curiamo, ma l’anima del nostro lavoro rimane profondamente umana.

A fare la differenza, come d’altronde suggerisce il concetto stesso di public relations, sono le relazioni. Un esempio di come è possibile far convivere questi due aspetti: l’AI ci aiuta a identificare quali giornalisti potrebbero essere interessati a una determinata storia, con indicazioni molto precise sul taglio da proporre. Molto meno precisa si rivela però nel tono, nel timing e nello sviluppo di storie correlate, insolite e curiose. Sta quindi a noi, con intuito, esperienza e visione, decidere quale approccio utilizzare».

Quali sono, secondo voi, i principali rischi reputazionali che oggi un brand deve affrontare a causa della disinformazione?

«Senza dubbio la viralità del falso, la perdita di fiducia e la polarizzazione promossa dai social media. Tre problematiche a cui si risponde efficacemente con una comunicazione strategica costruita nel tempo, rapidità e trasparenza. La sensazione, però, è che entro pochi anni penseremo alle fake news come a un problema piuttosto rudimentale se comparato ai deepfake, che rappresentano un “salto di qualità” in questa direzione.

Distinguere il vero dal falso sarà sempre più difficile, soprattutto all’interno di un ecosistema mediatico in cui le verifiche sono a volte sacrificate sull’altare della velocità. Per i brand, questo significa affrontare rischi reputazionali molto più profondi e amplificati, e in alcuni casi addirittura inediti. Per fare alcuni esempi, pensiamo a deepfake di CEO con dichiarazioni false ma visivamente del tutto credibili, o ancora la manipolazione dei dati attraverso bot e AI per influenzare la percezione pubblica. Oggi più che mai, in ambito PR e reputazione non è possibile improvvisare».

Quanto costa oggi a un’azienda non essere preparata a gestire una crisi innescata da contenuti falsi generati o amplificati online?

«Il costo è altissimo sotto ogni punto di vista. In parallelo ai danni economici diretti (come la perdita di clienti, il calo di vendite, le spese legali e persino i crolli in Borsa, nel caso di aziende quotate), c’è un danno reputazionale i cui effetti si palesano nel medio e lungo termine in maniera molto concreta. Una crisi non gestita, ad esempio, rende più difficile attrarre talenti, rinnovare contratti, negoziare partnership, contattare stakeholder, ottenere visibilità mediatica positiva e molto altro ancora.

Ed è importante sottolineare che non parliamo soltanto di multinazionali o grandi aziende: anche le PMI possono trovarsi al centro di un attacco di disinformazione, proprio come già avviene per gli attacchi informatici. In un’epoca in cui le fake news si creano con un prompt e si diffondono in un click, essere impreparati è semplicemente troppo rischioso».

In che modo il “fact-checking preventivo” può aiutare le aziende a blindare la propria credibilità prima di una crisi?

«Questo è un punto cruciale. Il fact-checking preventivo rappresenta una strategia offensiva e difensiva allo stesso tempo.  Offensiva perché consente ai brand di strutturare una narrazione solida, credibile e verificabile sin dal principio. Bisogna immaginare questo aspetto come una sorta di curriculum certificato che l’azienda lascia dietro di sé, attraverso media relations solide e di qualità. Difensiva, perché permette di arginare, con la propria credibilità, eventuali diffusioni di contenuti inesatti, ambigui o addirittura dannosi verso il brand.

Adottare questa mentalità significa giocare d’anticipo in maniera proattiva; non reagendo a una crisi potenziale, quindi, quanto piuttosto anticiparla. In concreto, significa supportare una comunicazione costante con report trasparenti, dati, audit e storytelling coerente. Tutti i contenuti devono essere validati e tracciabili, specialmente se un brand opera in ambiti molto sensibili o percepiti come tali. Va detto che questo non è del tutto sufficiente per mettersi al riparo, ma contribuisce in modo importante alla costruzione di fondamenta molto solide, capaci di reggere eventuali terremoti».

Quanto spazio stanno trovando, nella vostra offerta, servizi di monitoraggio predittivo basati su AI?

«Sono servizi in forte crescita. Nelle PR in particolare, il monitoraggio predittivo è un ulteriore passo in avanti verso un approccio proattivo alla comunicazione corporate. Già nell’operatività quotidiana, l’AI è un supporto fondamentale per attività come newsjacking (inserirsi nel flusso di una notizia al momento giusto), anticipare i trend e affinare le scelte strategiche.

Ampliando l’orizzonte, guardando quindi ai benefici di medio e lungo termine, questi servizi permettono di lavorare sulla costruzione della reputazione nel tempo. Possono infatti aiutare a prevenire potenziali crisi, a intercettare debolezze e anche a destinare gli investimenti con più accuratezza. Non sono infallibili, anzi, ma sono una bussola spesso veritiera sulla direzione intrapresa e quella da intraprendere».

Oggi la reputazione di un brand viene considerata un valore intangibile o riuscite a misurarne il valore economico concreto?

«In Italia la reputazione è ancora percepita troppo spesso come un soft asset, sebbene il suo legame con il business sia ormai sempre più evidente: influenza le vendite, il pricing, la capacità di attrarre talenti e investitori e agisce in modi molto particolari e diversi tra loro. Misurarne il valore economico concreto è difficile, per via delle variabili in gioco.

Un modo interessante, uno tra i tanti possibili, è il cosiddetto Semantic Brand Score (SBS). Si tratta di una metrica che valuta l’importanza di un brand analizzando dati testuali attraverso metodi di text mining e social network analysis. 

Le tre dimensioni considerate per ottenere un risultato sono la prevalenza (cioè la frequenza con cui il brand è menzionato), la diversità (la varietà di contesti in cui il brand appare) e la connettività (ovvero la capacità del brand di collegare concetti diversi all’interno di una rete semantica). Questo approccio consente di ottenere una visione più precisa della reputazione di un brand nel contesto digitale».

Ci sono strumenti o metriche che utilizzate per quantificare l’impatto economico positivo di una buona reputazione?

«Il ROI e altre metriche quantitative, purtroppo, sono estremamente complessi da calcolare nelle public relations. Ogni agenzia (e ogni Paese) usa le sue, ma non si è ancora arrivati a un punto condiviso uguale per tutti.

Questo anche a causa della forte frammentazione delle dinamiche che si innescano con le PR. Prendendo ad esempio un brand che vende prodotti fisici: è quasi impossibile stabilire se gli ordini sono direttamente legati alla strategia comunicativa (l’acquirente legge del brand e compra) o solo indirettamente (l’acquirente valuta più brand, trova online la rassegna stampa di uno di essi, lo percepisce come più affidabile e quindi lo sceglie).

Oltre al numero di pubblicazioni e la loro qualità, misuriamo anche il cosiddetto AVE, ovvero il valore equivalente pubblicitario delle uscite stampa, che indica il risparmio ottenuto in termini di visibilità media. In alcuni casi, quando possibile, costruiamo modelli che collegano la reputazione a KPI commerciali, come il numero di lead generati o la brand preference. Questo è però materialmente possibile solo quando le pubblicazioni ottenute contengono dei link tracciabili. Una pratica poco comune in Italia ma diffusa tra i media esteri, con i quali lavoriamo sempre di più e che consente una misurazione più precisa dell’impatto delle PR».

In base alla vostra esperienza, come cambierà il ruolo delle agenzie PR nei prossimi anni con l’affermarsi dell’intelligenza artificiale?

«Alla luce delle potenzialità e dei rischi generati dall’AI, è probabile che in futuro il ruolo delle agenzie PR sarà quello di partner strategico dei brand. Non solo più un ponte tra imprese e media, quindi, ma realtà con un ruolo molto più consulenziale per affiancare, alle PR tradizionali, comunicazione integrata, gestione della reputazione a 360 gradi e governance del racconto in un ecosistema mediatico complesso, fluido e ibrido che includa anche i new media.

In questo scenario, l’AI aiuterà a personalizzare sempre più i contenuti, ma il vero valore aggiunto sarà la capacità di generare una narrazione coerente e riconoscibile nel tempo. Secondo noi, le PR del futuro avranno tre anime: creativa, analitica e consulenziale».

Quali nuove competenze professionali stanno emergendo o emergeranno nel mondo delle PR sotto la spinta di queste trasformazioni?

«Le PR, già oggi, sono estremamente multidisciplinari. Se fino a pochi anni fa un bravo PR era quello capace di portare copertura mediatica in modo abbastanza continuativo, le trasformazioni di Mercato stanno obbligando i professionisti del settore a evolversi coprendo ambiti sempre più specifici. Tra le nuove competenze che faranno la differenza sul piano tecnico, ci sono sicuramente l’uso strategico dell’AI, lo storytelling multicanale e l’analisi dei dati.

Su un piano più umano, la capacità di agire con velocità e intuito per la notizia, un pensiero laterale molto sviluppato ed empatia. Siamo ancora nel campo della sperimentazione, ma una competenza fondamentale sarà riuscire a unire questi due livelli in modo armonico: tecnologia e umanità». ©

Articolo tratto dal numero del 1 giugno 2025 de Il BollettinoAbbonati!

📸 Credits: Canva    

Imparare cose nuove e poi diffondere: è questo il mio obiettivo. Proprio questo mi ha portato ad approfondire il mondo del web3, della finanza digitalizzata e delle crypto. Per il Bollettino mi occupo di raccontare una realtà ancora poco conosciuta in Italia, ma con un grande potenziale.