Gli italiani sono tra i popoli più insoddisfatti in fatto di lavoro. L’edizione 2024 del Global Workplace Report di Gallup afferma che il malcontento è esteso al punto che addirittura un quarto dei lavoratori si dichiara “attivamente disimpegnato” nella propria professione, una percentuale di dieci punti sopra la media mondiale. Un malessere così intenso da sconfinare, per un dipendente su quattro, nel tentativo di sabotare volontariamente, lavorando male, l’impresa per cui si lavora. Quali effetti può avere uno stato d’animo così diffuso in un Paese la cui Cenerentola è proprio la produttività? Un valore statico, che secondo l’Eurostat era pari a 100,5 nel 2023, in salita di appena 2,5 punti rispetto a vent’anni prima, il 2003. «Le aziende sono sempre più consapevoli di come fattori quali il benessere dei propri collaboratori sia una garanzia di performance maggiori» dice Silvia Zanella, saggista e LinkedIn Top Voice sul tema Lavoro. Per Bompiani ha scritto il libro Basta lavorare così, un saggio che parte da un presupposto: non è normale stare male psicologicamente a causa del lavoro.
Non è solo una questione di salute mentale. A suffragare il fatto che ci sia una relazione tra serenità dei lavoratori e produttività ci sono diversi studi…
«Sono ormai parecchie le ricerche a supporto: non ultima quella della Business School dell’Università di Oxford, secondo la quale i lavoratori felici sono il 13% più produttivi degli altri. La ricerca di Gallup mette in luce invece come la tristezza dei lavoratori italiani mini anche una delle necessità principali del nostro tempo per le organizzazioni».

Quale?
«Il fatto che sia sempre più un’esigenza delle aziende che la collaborazione sia crossfunzionale, vale a dire che le persone si parlino tra di loro. Ma se la demotivazione è tale da portare a remare contro l’azienda è chiaro che poi si respinga ogni volontà di collaborazione».
Quali altri risvolti negativi ci sono dietro i comportamenti “tossici” dei manager alla base dello stress dei lavoratori?
«Una delle conseguenze si traduce nei tempi di reclutamento dei talenti. Inevitabilmente si allungano e giocoforza diventano più costosi. Non solo, ma le aziende che non si comportano bene con il personale finiscono per perdere competitività».
La tossicità si riflette insomma nell’incapacità di retention aziendale…
«È evidente che le risorse che potranno scegliere lo faranno e se reclutate altrove passeranno a un’altra azienda. E questo ha pesanti risvolti sui KPI econometrici. Indicatori che invece dovrebbero far riflettere imprenditori e manager su quanto sia più conveniente motivare le persone creando posti di lavoro in cui si opera in serenità».
È tutta colpa delle aziende?
«Non esclusivamente. Al di là delle responsabilità del management anche le persone stesse dovrebbero farsi un esame di coscienza nel senso di comprendere quali siano le giuste aspettative rispetto a un determinato impiego. Quello che si può o meno ricevere quando si occupa una determinata posizione. La Gen Z in questo senso, come sempre si sente dire ultimamente, è la fascia di popolazione che avanza più richieste. Ma non necessariamente si tratta di rivendicazioni assurde come magari tendono a pensare i più senior».

Hanno ragione quindi a farsi valere?
«È cambiato il benchmark quindi quello che stanno facendo Millennial e Gen Z è aprire un varco e un vaso di Pandora rispetto a una tutta una serie di iniziative e comportamenti. Non è che prima non andassero bene o non fossero accettabili, ma semplicemente la società è cambiata rispetto alla visione che avevano le generazioni anteriori come la X, la Y o addirittura i boomer».
Fanno parte di un mondo ormai superato?
«Per loro c’era un rapporto di subordinazione valoriale rispetto al lavoro. Non chiedevano a questo ambito della vita una rotondità, un equilibrio, come invece fanno i più giovani. C’è da capirlo: quando si sono affacciati al mondo del lavoro erano in piena epoca Covid, con una consapevolezza diversa dovuta anche al fatto che si sono visti traditi in quegli stessi ideali, come il lavoro e la carriera alla base di uno sviluppo prospero e del benessere personale e sociale, per cui i più anziani si sono invece immolati».
Non ricevono abbastanza dal lavoro e per questo reagiscono in questo modo?
«Per una persona di quaranta, cinquanta o sessant’anni è stato normale finora sacrificare la propria esistenza al lavoro perché lo stesso diventava sinonimo di stabilità, continuità, potere d’acquisto elevato, possibilità di fare carriera. Tutti obiettivi che non sono più alla portata di tutti. Per di più, i giovani hanno come Mercato del lavoro di riferimento il mondo intero. Non hanno motivo di restare in Italia quando possono permettersi di prosperare in altri Paesi».
Cosa chiedono oggi in generale i lavoratori?
«Sta crescendo in maniera netta l’importanza data dai lavoratori alla vita privata e al proprio benessere personale. Per chi è a caccia di un impiego, la ricerca dell’equilibrio vita-lavoro è addirittura superiore alla prospettiva di crescita professionale. Alcune ricerche dicono che oggi la maggior parte dei lavoratori non accetterebbe un’occupazione con poco bilanciamento tra vita privata e professionale».
Le avvisaglie le avevamo viste negli anni scorsi
«I fenomeni delle Grandi dimissioni o del Quiet quitting hanno dimostrato quanto fosse impellente per molte persone riappropriarsi della propria vita, o quantomeno fare un reset della sfera professionale».

La flessibilità è insomma il benefit più ambito
«Se ci rifacciamo alla ricerca di Gallup, vediamo come l’87% degli intervistati chieda una maggiore flessibilità lavorativa. Fra i benefit più ricercati dai candidati occupano i primi tre posti sul podio la settimana lavorativa di quattro giorni, chiesta dal 64% del totale, poter scegliere inizio e fine dell’orario di lavoro, per il 45%, e la possibilità di lavorare da casa, 35%».
Qualcosa di impensabile fino a poco tempo fa
«Per decenni la ricerca di un bilanciamento è stata considerata una cosa da rammolliti, da fannulloni, il lasciapassare certo per non fare carriera. Se non dichiaravi una dedizione assoluta e una disponibilità 24/7, non c’era nessuna possibilità che tu potessi essere considerato per compiti importanti o per ricoprire posizioni di rilievo. Con il risultato che chi aveva altre incombenze o carichi di cura era automaticamente scartato dai processi di promozione, considerato escluso dalla selezione per ruoli apicali. Uso il tempo passato ma è ancora la realtà per moltissime persone, donne specialmente».
Le aziende stanno finalmente capendo l’antifona?
«La buona notizia è che non conosco praticamente nessuna impresa che non si stia facendo delle domande in questo senso, anche se magari dandosi delle risposte non proprio lungimiranti: ma la messa in discussione c’è, e mi sembra un passo in avanti enorme. Perché è chiaro che nessuno ha più voglia di lavorare come si faceva prima».
Cosa dovrebbero fare le imprese per non perdere attrattività?
«Il primo passo per continuare a essere competitive è ascoltare i bisogni delle persone. Avvicinarsi ai loro punti di vista mettendo da parte l’idea per cui non bisogna cambiare perché “si è sempre fatto così”. Invece proprio dall’ascolto possono emergere prospettive inedite e non considerate. Il fattore umano in sostanza, sempre più importante in un’era pervasa dall’Intelligenza artificiale».
Nel libro si parla proprio di disinfestare le aziende
«Dagli ambienti aziendali vanno eliminati comportamenti aggressivi anche tra pari, superficialità manageriali, indifferenza, disinteresse verso le persone, bullismo, sessismo, discriminazioni, iniquità. Ai miei occhi sono gli obiettivi che dovrebbero occupare la parte superiore della to-do-list di un imprenditore o di un amministratore delegato. Oltre che della singola persona, che ha a sua volta delle responsabilità come parte di una organizzazione».

Quai rischi si corrono altrimenti?
«La perdita di competitività può portare anche al fallimento di un’impresa. Non ci deve essere il fraintendimento per cui mettersi nei panni altrui significa piegarsi a pretese che magari non sono ben formulate. Al contrario vuol dire armonizzare il lavoro tra vecchi e nuovi stili».
Cosa pensa dello smart working?
«Che sia stato oggetto di un grande malinteso. È una modalità di lavoro che non ha nulla a che fare con la perdita di produttività. Dietro l’apparente volontà di restaurazione leggo piuttosto la decisione di creare un disincentivo, di mettere le basi per licenziamenti mascherati. Non credo all’idea che si chieda il rientro in ufficio per dare una chance alle relazioni umane. Quelle si perdono davvero nel telelavoro, che è però un’altra cosa rispetto allo smart working. Arriverà un momento in cui saremo più pronti culturalmente per adottarlo davvero».
Nel suo libro lei fa una suddivisione cronologica delle varie epoche che ha attraversato il lavoro
«Sì. C’è stato un tempo in cui il lavoro, così come tutta la società, aveva punti cardinali forti e confini ineliminabili. Si lavorava in un certo posto, in determinati orari, a specifiche condizioni, con strumenti – fisici, intellettuali, emotivi – ben definiti. Questo ha caratterizzato l’epoca solida del lavoro, tra fine Settecento e fine Novecento, quella industriale, legata soprattutto alla manifattura e alle grandi produzioni».

Poi cos’è successo?
«C’è stata poi un’epoca liquida, dalla fine degli anni novanta del secolo scorso in poi, in cui la dimensione spazio-temporale è cominciata a venire meno e si sono fatti di nuovo più sfuggenti i contorni tra vita e lavoro. La tecnologia è stata la causa principale di questa smaterializzazione. Sono scomparse le garanzie di occupabilità dopo determinati percorsi di studi, le certezze del posto fisso, la linearità della carriera, la possibilità stessa di andare in pensione in tempi sicuri».
E poi la pandemia e la fase in cui ci troviamo ora
«Con i primi anni dalla pandemia, io credo, siamo entrati nell’era gassosa del lavoro. Un’era in cui è fondamentalmente saltato l’intero sistema, facendo esplodere ogni abitudine e certezza. Le polveri di questa deflagrazione stanno ancora cadendo: come dopo l’eruzione di un vulcano, siamo tuttora sommersi di ceneri e pulviscoli». ©
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Articolo tratto dal numero del 1° giugno de il Bollettino. Abbonati!