Le donne che lavorano incidono sul PIL, che salirebbe all’aumentare del tasso di occupazione femminile. Perfino del 12%, secondo l’Istituto europeo per la Parità di Genere, se il numero pareggiasse quello maschile, al momento intorno all’84%, 20 punti sopra. In più, altre statistiche confermano che laddove c’è più lavoro si fanno anche più figli. Per fare un esempio, Bolzano, Trento ed Emilia-Romagna registrano tassi di fecondità pari rispettivamente a 1,56, 1,28 e 1,22 figli per donna rispetto alla media nazionale di 1,20. Di pari passo va il tasso di occupazione, che si attesta rispettivamente al 69,3, 64,5 e 64,4%. Cosa succede invece in Regioni dove le donne sono scarsamente occupate? In Sardegna, Basilicata e Molise la fecondità è – in ordine – di 0,91, 1,08, e 1,10 figli per donna. E a lavorare è il 49% delle sarde, il 41,1 delle donne della Basilicata e il 46,4 di quelle del Molise.

Se aumentasse l’occupazione femminile
Se le donne lavorassero di più, e qui il riferimento è al lavoro retribuito – non a quello domestico e di cura – a guadagnarci sarebbe l’intera collettività: aumento del PIL, nonché un freno al crollo demografico, con coppie che mettono al mondo più figli. Più ricchezza per tutti insomma.
Invece, anche quest’anno il decimo rapporto Equilibriste, di Save the Children Italia con il contributo di ISTAT e del think tank Tortuga, pubblicato a maggio 2025, disegna un quadro a tinte fosche. E una realtà colma di difficoltà per le madri italiane chiamate a conciliare lavoro e maternità. «In questi dieci anni lo svantaggio occupazionale delle donne in Italia, e in particolare delle madri, persiste come una sfida complessa e multidimensionale» si legge nel report.
Welfare assente
Con servizi insufficienti e un welfare familiare in cui il carico del lavoro di cura è ancora troppo sbilanciato sulle madri. Le donne faticano a mettere insieme carriera e vita familiare e anche quando lo fanno sono comunque svantaggiate: hanno redditi inferiori rispetto agli uomini e le posizioni ricoperte sono meno prestigiose. Perché il punto centrale è in definitiva uno, da cui derivano a cascata gli altri. E cioè che il momento in cui le donne accedono a una posizione lavorativa e progrediscono nella carriera coincide spesso con quello della maternità. Nella fascia che va all’incirca dai 25 anni e finisce intorno ai 49 per esemplificare. Gli ostacoli si concentrano tutti lì, come dimostrano i numeri.

Maternità e carriera
Quando si parla delle criticità dell’occupazione femminile ci si riferisce in particolare alle donne tra i trenta e i quaranta anni. La fascia 35-44enni è quella in cui le disuguaglianze tra uomini e donne si ampliano maggiormente. E il motivo è presto spiegato: è quella la fase in cui più frequentemente si hanno figli piccoli e si incrociano esigenze di cura e piena carriera. Il risultato, evidenzia il rapporto, è che a parità di numero di figli minori, il divario occupazione tra uomini e donne si allarga.
Facendo emergere tutte le difficoltà delle lavoratrici con figli a carico, in particolare nelle zone d’Italia più svantaggiate: nel Nord è ad esempio occupato il 96,5% degli uomini con due o più figli minori, a cui fa fronte un tasso del 71% di donne occupate. Al Centro invece, tra chi ha due o più figli minori, lavora il 95% degli uomini contro appena il 67% delle donne. Nel Mezzogiorno la situazione peggiore: lavora l’84% degli uomini contro il 42,6% delle donne. Si tratta di una forbice media di oltre 40 punti percentuali.

La presenza di figli (o meno)
Puntando poi la lente di ingrandimento sulla divisione per età, si vede ancora più chiaramente come la presenza di figli sia in generale un elemento che erode il tasso di occupazione. I numeri più bassi si vedono tra le donne con due o più figli minorenni. Solo il 39% di quelle tra i 25 e i 34 anni risulta occupata nel caso abbia almeno due figli. Per quelle senza figli la percentuale è del 66,5%. Nella stessa fascia anagrafica gli uomini con un’occupazione sono oltre il doppio, l’87%. La stessa differenza si rileva su chi ha un solo figlio.
Lavora in questo caso il 90% dei maschi contro il 58% delle 25-34enni. Una condizione che sembra poi permanere anche più avanti. Solo il 60% delle 35-44enni con due figli o più lavora (i maschi sono al 91%), contro il 73 di chi non ha figli. È solo tra i 45 e 54 anni, quando i figli sono di solito più grandi, che il tasso di occupazione finalmente sale per le donne al 74%. Tra tanti numeri e percentuali prende piede in sostanza una certezza: i piccoli da accudire rappresentano un freno – ma solo per le donne – all’accesso al lavoro.
I redditi più bassi
Anche quando il lavoro c’è, le madri sono però discriminate. La ricerca la definisce segregazione verticale. Il 49,7% dell’umanità è di sesso femminile, ricorda il rapporto. Eppure, i Paesi con un Capo di Stato donna sono solo 18 (il 12% del totale) e quelli con una donna a capo del Governo solo 16 (l’8% del totale). In ambito politico, le parlamentari occupano il 27% dei seggi a livello globale.

Nelle grandi società quotate in Borsa, nel 2024, in Italia solo il 3% degli amministratori delegati era donna a fronte di una media UE27 del 7,8%. Unico dato positivo, il numero di donne dentro i Consigli di amministrazione: sono il 43% contro la media UE del 34. L’esito della legge sulle quote rosa nei Consigli d’amministrazione.
Le retribuzioni
Senza contare la penalizzazione sul piano retributivo. Nel 2022, le dirigenti under 40 guadagnavano in media 65.074 euro, a fronte dei 102.910 per i maschi. E ancora, dice il rapporto, tra il 1985 e il 2018, 15 anni dopo la nascita del primo figlio, l’aumento salariale delle madri risultava essere del 57% inferiore rispetto alle donne senza figli. Una disparità salariale che è soprattutto di genere e trasversale a tutti i settori. Nelle attività finanziarie e assicurative, le donne guadagnano il 32% in meno dei colleghi, mentre nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, il divario sale al 35%. Sorprendentemente, anche in settori come istruzione e sanità, dove la presenza femminile è storicamente forte, le donne guadagnano rispettivamente circa l’11% e il 25% in meno degli uomini.
C’entra anche il percorso di carriera che si sceglie? Non c’è dubbio. Le donne tendono a intraprendere un tipo di istruzione che fin da subito le orienti verso mestieri legati alla cura. Emblematico è l’insegnamento, ma vanno per la maggiore i servizi in generale. «Schemi di genere interiorizzati», dice il rapporto, che inducono le donne a percepirsi come più adatte a tali professioni. Basti pensare ai percorsi universitari. Nel 2023, in Italia, la quota di donne tra i 25 e i 34 anni con una laurea in ambito STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) è stata meno della metà rispetto a quella degli uomini: 17% contro il 37.

Mamme single
«Equilibriste tra le equilibriste», le definisce lo studio. Sono le mamme single, un insieme sempre più consistente in Italia e che ricomprende una varietà di situazioni, tra cui genitori single per scelta, vedovi e, in misura predominante, separati o divorziati. I nuclei monogenitoriali, composti da padri o madri soli con figli che non hanno ancora composto un nuovo nucleo, sono passati da circa 2 milioni 650mila nel 2011 a oltre 3 milioni 800mila nel 2021, segnando un incremento del 44%. Trend opposto rispetto alle coppie con figli che sono invece calate nel tempo. E un esercito di famiglie dove si fa ancora più fatica, soprattutto a livello economico, rispetto ai nuclei in cui sono presenti due genitori.
La maggioranza di questi nuclei, precisamente il 77,6%, è costituita da madri sole con i propri figli. Nelle stime ISTAT per il 2023, sono un milione e 141mila i nuclei monogenitoriali con almeno un figlio sotto i 20 anni, di cui 953mila madri (l’83,5%). Nel 2024, si contano 1.019.000 madri single tra i 25 e i 54 anni, di cui 716mila con almeno un figlio minorenne.
Ed è per questa categoria che si parla di «femminilizzazione della povertà», con un aggravamento in tempi recenti. Nel 2024 il 23% della popolazione italiana ha corso il rischio di cadere in povertà o esclusione sociale. Una percentuale che sale al 32% tra i nuclei monogenitoriali, quasi tre punti percentuali in più rispetto all’anno precedente e 11 punti in più delle coppie con figli (21%).
La situazione è particolarmente critica nei nuclei guidati da madri single, dove l’indicatore raggiunge il 41%. La povertà alimentare, quella che impedisce l’acquisto del cibo necessario, ha colpito per esempio il 4% delle famiglie. Per le madri single l’incidenza è arrivata al 7,7%, quasi il doppio. Nuclei che sono più esposti per il semplice fatto che il reddito è unico e le spese non si suddividono. Un altro dato che lo spiega è quello sul reddito medio, che nelle famiglie monogenitoriali è di 26.822 euro. Per chi vive in coppia le entrate medie sono invece di 48.306 euro.

Ridurre la child penalty
Esistono modi per compensare la child penalty? Come si può ovviare alla penalizzazione che subiscono le donne alla nascita di un figlio in termini di lavoro e carriera? Per Save the Children l’offerta di posti negli asili nido gioca un ruolo fondamentale. Nel 2020 la copertura per bambini dai 3 ai 36 mesi in Italia era del 27%, sei punti percentuali al di sotto della soglia raccomandata dal Consiglio Europeo. Tradotto, nel 2022 una mamma su cinque non è riuscita ad accedere a servizi di educazione pre-scolare.
Altro punto sono i costi. Esiste una relazione inversa tra rette da pagare e offerta di lavoro materna. Con prezzi meno proibitivi e bambini accolti negli asili senza sborsare centinaia, talvolta migliaia, di euro, più madri sarebbero disponibili a lavorare. In media, una retta mensile in asilo nido si aggira sui 640 euro per una struttura privata, 210 euro per una pubblica. Con un abbassamento del 30%, è il calcolo, si registrerebbe una child penalty inferiore almeno del 28%. ©
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Articolo tratto dal numero del 1° luglio de il Bollettino. Abbonati!