domenica, 15 Giugno 2025

Vini e scenari globali Gaetani: «Container pieni, cerchiamo di anticipare i dazi. I più colpiti? I consumatori USA»

DiIlaria Mariotti

15 Giugno 2025
Sommario

La produzione di vino vale in Italia 45,2 miliardi, corrispondenti all’1,1% del PIL (Fonte: Osservatorio UIV-Vinitaly). Tanto per farsi un’idea in ordini di grandezza, l’intero sistema sport, calcio compreso, è equivalente all’1,3%. Gli addetti del settore si aggirano sulle 300mila unità.

E poi l’export, altra fetta importante del business, che nei decenni ha soffiato sulla competitività della produzione nostrana: nel 2023 sono entrati nei confini nazionali 7,8 miliardi di euro dalle esportazioni, con una crescita del 12% sull’anno precedente.

«La qualità dei nostri vini ormai non ha nulla da invidiare a nessuno» dice Gelasio Gaetani D’Aragona Lovatelli, imprenditore ed esperto di produzione vitivinicola.

Eppure, il nostro Paese non è il primo per esportazioni: la Francia è cresciuta ancora di più, raggiungendo i 12,5 miliardi di euro, e la Spagna è arrivata ai 3 miliardi. Un’altra nicchia di Mercato è il turismo enologico, che contribuisce quasi al 20% del fatturato complessivo del comparto: i principali clienti sono statunitensi (23%), tedeschi (11,7%) e olandesi (10,5%). La fascia 25-34 anni è il 33% del totale.

Chi ci fa la concorrenza più forte?

«La Francia, soprattutto nella zona della Borgogna. Lì non c’è il nostro clima Mediterraneo; al contrario, piove sempre e c’è una odiosa umidità. Eppure si fondono quattro elementi che producono un risultato unico, per il microclima del singolo appezzamento di terra, la qualità della vita, le varietà di migliaia di viti coltivate. E poi l’elemento umano dato dal contadino, il famoso vigneron. Il viticoltore che ha esperienza generazionale su quel tipo di vino e su quel pezzo di terra. Esperienza che poi diventa conoscenza e successo».

Si può dire che in Francia abbiano fatto la storia del vino?

«Dobbiamo essere loro riconoscenti, perché se esiste l’industria del vino è proprio perché il Paese è stato il riferimento di tutti quelli che hanno voluto imitare i francesi. Avevano capito il valore dei loro prodotti. Certo, loro hanno iniziato trecento anni prima di noi. E oggi c’è una competizione con loro. Ma è il rapporto con il Mercato che ha stimolato queste idee. L’Italia fino al Dopoguerra era povera, d’altronde è stata sempre dominata da altri».

Anche la California non scherza in quanto a concorrenza

«A partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta l’obiettivo degli americani è stato quello di comprare la Francia del vino, gli chateaux di Bordeaux. Però all’epoca i francesi avevano la prelazione di governo, li consideravano monumenti storici. Molto sapientemente fecero una legge in tal senso. La conseguenza è che poi gli statunitensi hanno inventato il vino americano e a loro volta hanno creato un’industria dei vini californiani. Io stesso ho imparato molto da loro sulla parte del marketing e della narrazione del vino».

E sono diventati tra i nostri principali acquirenti…

«Sì, ed è proprio grazie all’avvio dell’export che è iniziato il miglioramento nella qualità. L’80% di quello che beviamo oggi sono vini industriali fatti da grandi gruppi vitivinicoli. Sono buoni, ma non rappresentano l’eccellenza. La Ferrari oggi produce duecento macchine, al mese che sono pochissime. All’inizio forse se ne facevano dieci. Bisogna uscire dal concetto che grande equivalga a bello».

Ha vissuto molto negli USA?

«Ho iniziato lì a vendere vino. Andavo negli Stati Uniti e portavo le bottiglie e mi ricordo che i ristoranti erano quelli dei figli dei migranti di New York. Loro avevano difficoltà a capire che quello che proponevo era un prodotto diverso dal fiasco di vino. Ho ricordi romantici di quell’epoca».

È cambiato parecchio, da allora?

«Sì. Oggi il vino italiano non ha nulla da invidiare a quello francese. Basta andare sui Mercati di riferimento del vino italiano per vedere come sono tutti elegantissimi i ristoranti con carte di vini italiani, considerati ormai pari a quelli francesi».

Parliamo di investimenti. Perché nel vino si può investire, anche a livello di trading. Come funziona?

«Si compra e si vende proprio come su una piattaforma finanziaria qualsiasi. Si acquista per poi cedere quando il prezzo è aumentato e non rischia di abbassarsi. Ci vuole destrezza perché i grandi vini quando invecchiano diventano rari e preziosi. Ma non si deve superare un certo limite, perché se invecchiano troppo non sono più buoni. Dentro il settore ci sono collezionisti e l’abilità sta nel capire il perfetto momento di maturità».

Un esempio?

«Per un Brunello il momento perfetto equivale ad esempio a quindici anni. Per un Bordeaux servono trent’anni di bottiglia».

A quali piattaforme ci si può affidare?

«Una è Liv-ex ed è la più importante nel trading, per monitorare l’andamento dei vini da investimento in tutto il Mondo. Mette a disposizione diversi indici. Per esempio, il Liv-ex Fine Wine 100 rappresenta il movimento dei prezzi dei cento vini più ricercati sul Mercato. Un altro, il Liv-ex Fine Wine 1.000, considera i mille più ricercati al Mondo, con sottoindici per le regioni più importanti». 

È complicato orientarsi, per chi non è un esperto del settore?

«In realtà no. Ci sono registrazioni di dati che si possono andare a consultare anche a livello storico. E non è un qualcosa che inizia oggi. I vini francesi più importanti già nel Settecento erano gestiti per mano di un trade inglese. All’epoca la regione Aquitania apparteneva alla Corona inglese e i britannici amavano quei vini prodotti fuori dall’isola dell’Inghilterra. Nascono così i cosiddetti “negociant”, che hanno tuttora uffici delle sedi storiche di Londra, a Jermyn Street. Peraltro adesso si sono spostati nel loro ex protettorato di Hong Kong, tuttora importante centro del commercio di vini di qualità attraverso le aste. E ancora oggi si fanno aste di vino».

Un altro modo di investire. Ce ne parli

«Anche qui bisogna disporre di dati. Se voglio comprare un vino importante e non ci capisco niente, posso andare in una delle principali case d’asta come Christie’s e farmi dare tutti i cataloghi. Ce ne sono centinaia a partire dagli Anni Quaranta o Cinquanta. E se si realizza un’analisi ben fatta poi l’investitore si ritrova quei vini nella prossima asta a Milano da Sotheby’s o a Ginevra: gli investitori esperti sono dove si trovano i vini più pregiati. In generale, il valore cresce per tutto ciò che è unico e importante. Penso ad esempio alla Ferrari di Gianni Agnelli della mia epoca».

Cosa aveva di speciale?

«Il volante al centro. Era fatta apposta per lui perché aveva una gamba compromessa dopo aver subito un incidente e in quel modo poteva schiacciare il freno».

La realtà di oggi è però che tutto il settore del vino risulta in calo

«Purtroppo è così. I giovani non amano il vino, quando escono e hanno tra i 16 e i vent’anni preferiscono i superalcolici. Una pratica peraltro discutibile in una fase della vita in cui si è molto fragili».

Quando si comincia ad apprezzare?

«Il giovane consumatore oggi è diverso rispetto a qualche decennio fa, quando il vino si ricercava per essere un po’ brilli. Si comincia ad apprezzare più dopo i trenta, quando magari si va a cena fuori e si comincia a guardare la carta dei vini. L’approccio è molto più culturale, si vuole l’abbinamento giusto perché ogni regione italiana ha prodotto un qualche vino diverso. Anche per fare bella figura con gli amici».

Cosa deve fare il Mercato per adattarsi?

«Si sta puntando adesso sui vini dealcolizzati. Hanno dagli 8 ai 10 gradi, come la birra».

Che idea si è fatto invece dei dazi di Trump?

«Speriamo che cambi idea, essendo lui molto versatile e un amante dell’Italia. Magari si alza una mattina e nel giro di qualche ora li abbassa. A parte la boutade, credo che il problema cadrà più sul consumatore americano che sul produttore. Chi è innamorato del vino non ci rinuncerà».

Esistono conseguenze già ora nel comparto?

«Si stanno intasando i container, perché i produttori stanno cercando di spedire i vini prima che i dazi siano introdotti, in modo da eluderli almeno parzialmente. L’importatore americano non dovrà quindi più rifornirsi riempiendo le cantine almeno sul momento».

Tutto dipende da chi compra, dunque?

«E dal contesto. Per esempio, sono stato ospite di amici in una proprietà di lusso, migliaia di ettari in Umbria, un sette stelle. Hanno una carta dei vini molto semplice, ma con prodotti eccellenti, con un costo anche di 3mila euro a bottiglia. E ci sono turisti appassionati che acquistano. Gli chef stellati in questi casi diventano ambasciatori del prodotto».

Anche lei è stato proprietario di una tenuta

«Sì, era della mia famiglia. Ci spostammo da Roma a Montalcino quando stavo per diplomarmi. Si facevano colture, all’epoca esisteva ancora la mezzadria per cui le produzioni si dividevano tra il contadino e il proprietario. Poi finì intorno agli anni Settanta. Abbiamo prodotto per decenni Brunello di Montalcino. Nel 2008 abbiamo venduto a un banchiere brasiliano. Con la moglie fecero un’offerta di quelle che non si possono rifiutare».

Che impatto potrebbe avere l’intelligenza artificiale sul settore?

«Penso all’imprenditore che fa vini buonissimi. O all’antico vigneron francese. Quell’elemento umano da direttore d’orchestra oggi potrebbe essere sostituito dall’AI predisposta al controllo della fermentazione».

Come si può intendere il vino oggi?

«Non è più un prodotto necessario all’alimentazione di una Italia povera. Oggi è diventato un elemento che rappresenta la vera identità del nostro Paese, che tutti cercano nel mondo globalizzato. Attraverso il vino possiamo parlare di cultura al pari di come possiamo parlare di letteratura. È il suo segreto».

Nei decenni ci sono stati grandi cambiamenti

«Il vino si produce in Italia da oltre duemila anni. Già con Plinio il Vecchio è documentata la produzione. La grande rivoluzione è iniziata alla fine degli anni Sessanta, quando produttori del centro Italia, Toscana, Piemonte e Veneto, hanno cominciato una produzione di qualità che ha avuto un grandissimo successo negli Stati Uniti, che sono diventati i nostri grandi compratori. Allo stesso modo, i francesi devono moltissimo all’amore dell’Inghilterra verso la loro produzione di trecento anni prima». ©️

📸 Credits: Canva   

Articolo tratto dal numero del 15 giugno de il Bollettino. Abbonati!      

Giornalista professionista, classe 1981, di Roma. Fin da piccola con la passione per il giornalismo, dopo la laurea in Giurisprudenza e qualche esperienza all’estero ho cominciato a scrivere. All’inizio di cinema e spettacoli, poi di temi economici, legati in particolare al mondo del lavoro. Settore di cui mi occupo principalmente per Il Bollettino.