Il Mercato globale della musica continua a crescere con l’interesse finanziario per un segmento ancora poco esplorato dal grande pubblico: quello dei diritti musicali. Nel 2024, i ricavi mondiali della musica registrata toccano quota 29,6 miliardi di dollari, segnando il decimo anno consecutivo di crescita. Lo streaming domina la scena, contribuendo per il 69% del fatturato totale e coinvolgendo oltre 752 milioni di utenti abbonati a servizi premium.
In Italia, il comparto discografico registra una performance superiore alla media globale: +15% nel primo semestre del 2024 e un fatturato che sfiora i 461 milioni di euro su base annua, rendendolo il terzo Mercato dell’Unione Europea dopo Germania e Francia. Anche i diritti connessi – ovvero le royalties derivanti dall’uso pubblico delle opere – crescono: +5,9% a livello globale e +2,6% in Italia, dove rappresentano ormai il 16% del fatturato del settore.
«Chi decide di puntare su questo settore lo fa generalmente con una visione di lungo periodo, orientata alla solidità e a ritorni regolari. L’asset musicale, grazie alle sue caratteristiche distintive, conserva nel tempo un fascino stabile per gli investitori», dice Eugenio Allora Abbondi, CEO di EICO Music Fund.
In parallelo, tecnologie come l’intelligenza artificiale e il machine learning iniziano a trasformare il modo in cui i diritti vengono gestiti e monetizzati, rendendo il settore musicale uno dei più promettenti laboratori di innovazione nell’economia digitale. Tra streaming globale, nuove piattaforme e automazione dei processi, i diritti musicali diventano oggi un asset sempre più strategico nel portafoglio di investitori e fondi alternativi.

In che modo l’instabilità geopolitica e finanziaria globale ha influito sulla crescita dell’interesse verso asset alternativi come i diritti musicali?
«Diciamo che l’impatto dovrebbe essere significativo, anche se molto dipende dal punto di vista da cui si guarda la questione. Una delle caratteristiche più rilevanti del settore musicale – e in particolare di quello legato ai diritti musicali – è la sua forte decorrelazione rispetto agli altri asset tradizionali e alle dinamiche tipiche dei Mercati finanziari. Proprio per questa sua autonomia, in momenti di instabilità economica o politica, il Mercato tende a guardare con maggiore attenzione a questo tipo di asset.
Quando tutto appare stabile e in crescita, si tende a trascurare i rischi potenziali, ma appena emergono segnali di crisi, torna l’interesse verso strumenti considerati più solidi e meno legati all’andamento generale dei Mercati. Ciò non significa che l’interesse per gli asset musicali debba esistere solo in tempi difficili: si tratta infatti di investimenti solidi anche nel lungo periodo. Chi sceglie di investire in questo ambito lo fa spesso con una prospettiva di lungo termine, cercando stabilità e rendimenti consistenti. L’asset musicale, per le sue peculiarità, mantiene comunque una certa attrattiva costante».
In cosa il modello di EICO Music Fund è davvero “decorrelato” rispetto agli strumenti finanziari tradizionali?
«Mi permetto di sottolineare innanzitutto che la decorrelazione di cui si parla è una caratteristica intrinseca dell’asset sottostante su cui si basa EICO Music Fund. Non si tratta quindi di una qualità esclusiva del nostro strumento, ma di una proprietà propria del Mercato dei diritti musicali. È un concetto che può essere compreso facilmente: ognuno di noi, in misura maggiore o minore, ascolta musica. E difficilmente il consumo musicale cambia in funzione del prezzo del petrolio, del tasso d’inflazione o dell’eventuale presenza di una crisi politica o geopolitica.
Questo semplice dato di fatto evidenzia in maniera chiara come i diritti musicali siano scollegati dalle dinamiche dei Mercati finanziari tradizionali. Partendo da questa base, EICO Music rappresenta un prodotto finanziario strutturato che opera su questo tipo di asset, implementando una strategia di selezione e ottimizzazione degli investimenti. In particolare, una delle nostre specificità è quella di concentrarci sul segmento editoriale e su brani storici, consolidati, che garantiscono un’elevata stabilità nel tempo. Questa scelta non incide direttamente sul livello di decorrelazione – che, come dicevo, è propria dell’asset – ma rafforza la stabilità e la solidità dell’investimento. È quindi importante distinguere tra ciò che è una caratteristica strutturale del settore e ciò che è il risultato di una nostra strategia gestionale».

Qual è il criterio principale che guida la scelta dei cataloghi da acquisire?
«Le svelo un segreto: non siamo noi a “scegliere” i cataloghi musicali, almeno non nel senso comune del termine. Non si tratta infatti di acquistare un prodotto sullo scaffale di un supermercato o un’azione su un Mercato regolamentato. È necessario che si creino le condizioni per cui un venditore decida, per svariate ragioni – esigenze finanziarie, strategiche o personali – di liquidare un determinato asset. Solo in quel momento si avvia un processo di valutazione da parte nostra.
Quando valutiamo un catalogo musicale, i criteri principali sono diversi. In primo luogo, consideriamo la tipologia del repertorio e puntiamo su quelli che offrono una buona stabilità degli incassi. Questo significa, in concreto, privilegiare cataloghi con una forte storicità, già entrati in quella che definiamo “fase di maturità”, ovvero un periodo in cui i flussi economici sono relativamente stabili e prevedibili. Tuttavia, anche in questa fase di stabilità possono esserci variazioni, talvolta molto positive. È il caso, ad esempio, di brani storici che ritrovano nuova vita grazie a remix o campionamenti, aumentando sensibilmente la loro redditività.
Quando questo accade, teniamo conto dell’effetto nelle nostre proiezioni, ma in linea generale tendiamo a preferire cataloghi che non siano soggetti a picchi improvvisi, positivi o negativi. Un altro elemento fondamentale nella nostra analisi è la diversificazione delle fonti di incasso. Evitiamo i cataloghi che dipendono in modo eccessivo da una sola modalità di fruizione, come il live. Oggi disponiamo di un portafoglio molto ampio, e ogni nuovo catalogo che integriamo contribuisce ulteriormente alla diversificazione complessiva. In sintesi, nella valutazione di un catalogo musicale diamo grande rilevanza alla sua storia, alle proiezioni future e alla qualità e varietà delle fonti di reddito. E, come criterio guida, prediligiamo cataloghi storici o composti da brani di particolare rilevanza e solidità».
L’Italia, secondo le vostre analisi, è un Mercato ancora poco reattivo. Da cosa dipende questa lentezza?
«È una dinamica tipicamente italiana. Lo abbiamo riscontrato ora che abbiamo aperto round di investimento significativi, coinvolgendo operatori, soprattutto internazionali, che mostrano grande interesse per il settore. Anche perché, a livello globale, strumenti come il nostro sono davvero pochi. Sul Mercato italiano, invece, la risposta più frequente da parte dei grandi player è che si tratta di un asset nuovo e poco conosciuto.
Questo riflette una certa mancanza di dinamicità, forse legata alla storica prudenza degli asset manager italiani. Detto ciò, oggi siamo comunque in dialogo anche con tre controparti italiane: l’interesse c’è, ma arriva con tempi diversi».

L’investimento in diritti musicali è spesso paragonato all’arte. In che misura conta la componente culturale o iconica, e quanto invece pesa la mera logica finanziaria?
«Lo dico con un po’ di ironia: spero che nessuno del mondo musicale mi ascolti, ma la verità è che, purtroppo, il valore culturale o artistico di un catalogo conta pochissimo. I cataloghi vengono valutati esclusivamente sulla base dei flussi di cassa che generano.
È un dato di fatto: più si produce reddito, più si viene ascoltati e, di conseguenza, più impatto si ha culturalmente. Non è una relazione diretta. Una canzone può essere artisticamente eccezionale, ma se non genera incassi, vale poco sul Mercato. È una logica completamente diversa rispetto a quella delle arti visive, dove il valore di un’opera può derivare da criteri soggettivi, storici o sociali. Nel nostro settore, invece, tutto si riduce a performance economica. È anche per questo che riteniamo esistano cataloghi sottovalutati, che oggi non riflettono pienamente il valore intrinseco che generano. Ne sono convinto: tra tutte le arti, la musica è quella con il maggiore impatto sociale».

Avete adottato strumenti di intelligenza artificiale o Blockchain per monitorare e massimizzare la raccolta delle royalties a livello globale?
«Noi proveniamo da un background finanziario molto avanzato, con una forte componente tecnologica già integrata nella nostra struttura. Quando ci siamo avvicinati al Mercato musicale, ci siamo subito resi conto di quanto fosse arretrato da questo punto di vista. È proprio su questo gap che abbiamo deciso di investire, e continuiamo a farlo. A oggi, abbiamo automatizzato circa il 60% dei processi editoriali, soprattutto quelli di natura amministrativa, grazie a software proprietari. Inoltre, utilizziamo tecnologie di machine learning da tempo, e oggi stiamo compiendo un ulteriore passo avanti, anche in direzione dell’intelligenza artificiale.
Queste tecnologie ci servono su due fronti: da un lato, per gestire e controllare correttamente la rendicontazione dei diritti a livello globale – assicurandoci, ad esempio, che i brani siano registrati presso tutte le collecting societies. Dall’altro, per stimolare l’utilizzo dei brani del nostro catalogo, anche attraverso l’ottimizzazione della loro diffusione digitale, ad esempio su piattaforme come YouTube o Instagram, dove lavoriamo per generare contenuti che possano favorire la nascita di trend legati ai nostri titoli».

Come immagina il Mercato dei diritti musicali tra dieci anni, considerando l’impatto crescente dello streaming, dell’AI generativa e delle nuove piattaforme globali?
«Dal punto di vista della redditività, prevediamo una crescita significativa. Dopo il crollo legato alla pirateria e alla crisi post-vendita di CD, lo streaming ha riportato la musica al centro, diffondendola globalmente. A trainare il settore finora è stata la capillarità dell’accesso, ma in futuro sarà probabilmente l’aumento del valore riconosciuto al prodotto: oggi, con 9 euro al mese, si può accedere a tutta la musica del mondo, mentre dieci anni fa un solo CD costava più del doppio. In parallelo, le nuove tecnologie – in particolare il Web3, il metaverso e l’intelligenza artificiale – apriranno nuove fonti di ricavo.
L’AI, in particolare, permetterà un controllo più preciso sull’utilizzo dei brani e sull’efficienza dei flussi, aumentando così i ricavi complessivi. Infine, resta aperto il tema della paternità delle opere. Personalmente, ho sempre sostenuto che l’autore debba rimanere un essere umano. E comunque non si potrà mai stabilire quanto un artista sia stato influenzato da una macchina». ©
Intervista tratta dal numero del 1 luglio 2025 de Il Bollettino. Abbonati!
📸 Credits: Canva