Il mercato del credito deteriorato è di fronte a una rivoluzione. Numerosi i cambiamenti che lo aspettano nei prossimi mesi, e primo fra tutti lo straordinario flusso di UTP (Unlikely To Pay) che, stando ai dati dell’ultimo Market Watch di banca Ifis, confermati dagli operatori nelle ultime settimane, inonderà il mercato. Gli UTP sono crediti che, seppur probabilmente inadempienti, non presentano ancora un caso conclamato di insolvenza, e dunque presentano ancora la possibilità di essere rimessi in bonis. «Per il settore si tratta di una sfida importante perché, mentre esiste una molteplicità di operatori e di expertise diffuse per la gestione dei crediti maggiormente deteriorati, la gestione degli UTP comporta competenze e abilità che al momento scarseggiano nel sistema» dice Massimo Famularo, Head of Italian NPLs presso Distressed Technologies e Head of finance and NPE presso Luigi Luzzatti S.C.p.A.
La novità del momento è il notevole ammontare di UTP: a cosa è dovuto e cosa comporta per il settore?
«Questo fenomeno deriva in termini assoluti da fattori strutturali, ovvero dalle istituzioni, come la regolamentazione che disciplina l’attività di impresa e la gestione delle insolvenze, e congiunturali, come la scarsa crescita dell’economia tra il 2000 e il 2020 e uno shock straordinario come la pandemia. In termini più relativi è legato alla riduzione delle esposizioni NPL su cui si è concertata l’attività di dismissioni tra il 2015 e il 2020. Quanto alle conseguenze, essendo gli UTP crediti ancora “vivi”, necessitano di competenze finora tipiche di credit manager o gestori bancari: il mercato è ricco di competenze per l’attività di recupero liquidativo, tipica degli NPL, ma questo tipo di know-how scarseggia, in quanto fino a oggi questo tipo di prodotti erano gestiti soprattutto internamente dalle banche. Il recupero crediti avviene spesso per via legale, attraverso avvocati esterni, o stragiudiziale, con phone e home collection. Per questo è più facile acquisire delle skills specifiche e costituire agenzie operanti dall’esterno. Sugli UTP è tutto diverso: la sfida è promuovere un’industria esterna, che si faccia valere per le sue capacità di ristrutturazione aziendale o di gestione della crisi d’impresa, ma anche di avere a che fare con le procedure concorsuali».
Visto che normalmente con gli UTP si tende a cercare la rimessa in bonis, come può intervenire un servicer?
«Il tema è duplice: a differenza della sofferenza, l’UTP è uno stato in teoria transitorio, dopo il quale la posizione diviene performing o non performing. L’attività core del gestore di questi crediti dovrebbe essere di realizzare un monitoraggio stringente per valutare in tempi brevi se è possibile un recupero in bonis oppure se bisogna passare al recupero vero e proprio. Il problema è che questa classificazione è spesso usata come un buffer, perché le banche preferiscono tenere i crediti nel limbo piuttosto che classificarli come sofferenze».
Sarebbe dunque opportuno un intervento da parte del legislatore?
«In realtà gli interventi ci sono stati, grazie a calendar provisioning e nuova definizione di default: in pratica la legge ha imposto agli istituti di credito una specie di conto alla rovescia, di modo che queste posizioni non divengano permanenti. La realtà purtroppo è che permane la tendenza a non gestire attivamente le posizioni che potrebbero essere riportate in bonis e a lasciare i crediti indefinitamente in questo status per tenere sotto controllo gli accantonamenti. Si tratta di una questione che lascia ampi margini di discrezionalità, un’area grigia che comporta difficoltà valutative rilevanti, ma di cui sicuramente alcuni istituti approfittano».
È corretto dire che la crisi recente ha causato un aumento del flusso di sofferenza, e di conseguenza un’espansione del mercato NPL?
«L’aumento delle insolvenze era un fenomeno in larga misura atteso a seguito delle limitazioni alle attività produttive e alla circolazione di persone e merci collegata alla recente emergenza sanitaria. Ad oggi i flussi osservati risultano temporaneamente inferiori alle attese, principalmente a causa delle misure di sostegno all’economia poste in essere dai governi. Esiste un consenso abbastanza diffuso sul fatto che l’aumento delle insolvenze e un ulteriore deterioramento delle esposizioni creditizie sarà osservato nel corso del 2022».
Crede che la riforma della giustizia potrà portare un aiuto consistente al recupero crediti?
«Dipende dal compromesso che verrà raggiunto su alcuni punti chiave. In passato si è cercato ad esempio a più riprese di semplificare e velocizzare il processo di escussione delle garanzie immobiliari da parte dei creditori, con scarsi risultati sul piano pratico».
Ultimamente, i toni con AMCO sembrano essere particolarmente calmi. Marina Natale ha affermato che ambisce a «un ruolo di partnership con tutti gli altri operatori». Cosa può significare, in concreto?
«Una possibile lettura può essere che il periodo in cui si sono resi necessari interventi straordinari sui crediti deteriorati per gestire il dissesto di alcuni istituti di rilevanti dimensioni (dalle popolari venete a MPS) stia volgendo al termine. Il nuovo corso della società potrebbe essere maggiormente orientato a operazioni di garanzia sugli attivi o di cartolarizzazioni sintetiche».
L’ultimo NPL Meeting era intitolato “recovery builders”: in che modo il mercato NPL può dare un contributo alla ripresa?
«Un mercato vitale e funzionante per i crediti deteriorati contribuisce positivamente alla ripresa economica perché consente alle banche di offrire una quantità maggiore di credito all’economia e favorisce una rapida riallocazione delle risorse liberate nei procedimenti di liquidazione e ristrutturazione delle imprese oltre che dalla liquidazione delle garanzie».
©Marco Battistone
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