giovedì, 18 Aprile 2024

MODA SOSTENIBILE, VERSO IL PASSAPORTO DIGITALE

Il futuro della sostenibilità nel mondo della moda passerà dal Digital ID, un “passaporto digitale” che accompagnerà i capi tramite un’etichetta e che permetterà all’acquirente di conoscere il grado di sostenibilità del singolo capo, a partire dalla sua progettazione, passando dalla fase di produzione e da quella del trasporto. Il progetto, sviluppato dalla Fashion Taskforce diretta da Federico Marchetti, che fa parte della Sustainable Markets Iniatiative fondata da Carlo d’Inghilterra, è stato presentato nell’ambito del G20 di Roma in preparazione alla Cop26. «Il settore della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali (più dei voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme, ndr)» spiega Martina Cergnai, avvocata esperta di Fashion Law e Diritto Informatico, «per questo una conversione dell’intero settore tesa a rispettare gli impegni dell’Accordo di Parigi e ora della Cop26 è più che mai indispensabile; i paesi industrializzati sono chiamati ad accelerare la transizione dal carbone all’energia pulita, a proteggere la biodiversità, a ridurre drasticamente le emissioni di carbonio per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nel 2050».

In che modo il Digital ID potrebbe contribuire a questi obiettivi?
«La moda è uno dei settori che contribuiscono di più all’inquinamento, e per questo una sua riconversione verso la sostenibilità è indispensabile. Il passaporto digitale si propone, tracciando tutti gli step della filiera produttiva, di garantire totale trasparenza al cliente proprio sul grado di sostenibilità del prodotto. Mentre nel lusso alcuni brand hanno già iniziato a dirigersi in questa direzione, il dubbio riguarda i gruppi del fast fashion: la grande sfida è che anche loro facciano lo stesso».

Che rivedano i sistemi di produzione?
«Sì, ma non solo, c’è bisogno anche di molta più attenzione verso le materie prime. Pensiamo a due dei principali materiali utilizzati oggi, cotone e poliestere: il primo se coltivato con sistemi di agricoltura intensiva richiede un grande dispendio di acqua con conseguenze disastrose in termini di siccità e di biodiversità, visto il quantitativo di pesticidi utilizzati. Il secondo invece è una delle principali fonti inquinanti per l’oceano, perché disperde microplastiche».

Quali sono gli scopi diretti del Digital ID?
«Si tratta di certificare dove ci sono dei processi sostenibili, incentivare le realtà che non li hanno ancora messi in atto e, se vogliamo, responsabilizzare i consumatori nell’acquisto. Nelle generazioni più giovani comunque c’è un interesse sempre maggiore nel tipo di prodotto che si acquista e alla sua qualità, un fattore che non attesta soltanto la sostenibilità del prodotto ma anche il fatto che sia più durevole. Con il tempo credo tornerà in auge sempre più il concetto di “pochi capi ma buoni”: ovviamente la varietà di abbigliamento presente sul mercato non può essere eliminata da oggi al domani, ma questo porterà a un interesse minore verso il fast fashion. Proprio per questo le stesse aziende hanno tutto l’interesse a rispettare le normative in fatto di sostenibilità, senza contare le possibili ripercussioni sulla propria reputazione».

Quali sono le garanzie rispetto alle informazioni contenute nei certificati?
«Si sta parlando di introdurre la tecnologia blockchain in questo processo. La blockchain mette al riparo contro il potenziale pericolo di alterazione dei dati, in modo che non ci sia la possibilità per le aziende di alterare in un secondo momento le informazioni su tessuti, filiera e lavoro a proprio vantaggio. In ogni caso chi vorrà inserire nei capi l’identificativo dovrà aderire a questo sistema, e sicuramente verrà sottoposto a verifiche riguardanti la veridicità delle informazioni fornite».

Ci sono dei lati negativi nell’introduzione di un passaporto digitale?
«Per chi entrerà a far parte del sistema no: si creerà però inevitabilmente una iniziale “discriminazione” tra chi ha la possibilità di utilizzare materie prime sostenibili e lavorazioni altrettanto rispettose dell’ambiente e chi, vuoi per mancanza di risorse o per le piccole dimensioni dell’azienda, non potrà implementare questi correttivi nel breve periodo. La capacità di investire in questa direzione farà sicuramente la differenza, anche perché la prospettiva è che nel futuro adeguarsi sarà quasi obbligatorio, o a causa di imposizioni legislative o a causa delle scelte sempre più consapevoli dei consumatori».

Quale sarà il valore legale del Digital ID?
«Potrà rappresentare innanzitutto una protezione dal pericolo di contraffazione. L’Italia è il paese al mondo che subisce di più questo fenomeno: un sistema simile potrebbe quindi avere un impatto importante sull’economia, considerato che oltre alla moda in futuro potrebbe trovare applicazione nel campo alimentare, anche questo particolarmente danneggiato dal fenomeno della contraffazione da parte dei paesi esteri».

E poi?
«L’identificativo potrebbe anche salvaguardare l’azienda in campo penale: la certificazione della sostenibilità delle materie prime, la tracciabilità dei processi produttivi e la certificazione che questi rispondano ai requisiti di legge potrebbe salvaguardare l’azienda da possibili accuse di reati ambientali. Nel momento in cui il Digital ID dovesse certificare anche le condizioni di lavorazione poi sarebbe una fonte di informazioni riguardante la sicurezza dei lavoratori, utili in tema di diritto del lavoro. Ricordiamoci che oggi i consumatori, oltre che all’impatto ambientale, sono molto più sensibili anche verso tematiche come queste, riguardanti lo sfruttamento dei lavoratori».

Il passaporto potrebbe quindi aumentare il valore del capo?
«Nel breve termine potrebbe, anche perché sicuramente gli adeguamenti richiederanno in questa prima fase una serie di investimenti da parte delle aziende. Ma già in questo momento se ci pensiamo bene scegliere dei capi prodotti con materiali ecosostenibili costa di più rispetto al modello equivalente in poliestere: la qualità si paga».  

Però anche tra due capi equivalenti in fatto di sostenibilità, quello che possiede l’identificativo potrebbe valere di più.
«Sì potrebbe, proprio per gli investimenti necessari per ottenere la certificazione a cui accennavo prima».

Il passaporto digitale avrà un impatto sul “fine-vita” del capo?
«Sì, perché fenomeni come quello dell’upcycling, che prevede il recupero creativo di un capo o dei materiali con cui è composto, e quello del riutilizzo del capo usato potrebbero beneficiare da una certificazione riguardante il tessuto, la provenienza e l’autenticità del prodotto. Un esempio che di recente ha fatto scalpore è stato quello ideato dal collettivo di artisti MSHCF, che riutilizzando la pelle di borse Birkin di Hermès hanno creato delle scarpe con lo stesso design delle Birkenstock, chiamandole Birkinstock. Un esempio che mostra come il settore si stia aprendo alla possibilità di recupero e riutilizzo del materiale invenduto, che altrimenti verrebbe buttato».

Quando entrerà in funzione l’identificativo?
«I marchi che fanno parte della Fashion Taskforce stanno iniziando a implementare questo sistema, ma in realtà in Italia alcune aziende di fascia medio – alta del settore aderiscono già a un sistema simile, il TFashion (Traceability & Fashion), gestito da Unionfiliere e promosso dalle Camere di commercio italiane. Le aziende che hanno ottenuto la certificazione forniscono già al consumatore informazioni aggiuntive relative ai materiali, alla sicurezza dei lavoratori e alla sostenibilità aziendale». © 

Nadia Corvino

Twitter: @corvonad

LinkedIn: @nadiacorvino

Laureato in Economia, Diritto e Finanza d’impresa presso l’Insubria di Varese, dopo un'esperienza come consulente creditizio ed un anno trascorso a Londra, decido di dedicarmi totalmente alla mia passione: rendere la finanza semplice ed accessibile a tutti. Per Il Bollettino, oltre a gestire la rubrica “l’esperto risponde”, scrivo di finanza, crypto, energia e sostenibilità. [email protected]