venerdì, 19 Aprile 2024

Mingardi, Ist. Bruno Leoni: «Si pensi a come creare ricchezza, non a spartire pezzi di spesa pubblica»

Ogni evento è unico, ma la pandemia che ha stravolto il mondo in questi due anni non è così diversa dalle epidemie che l’hanno preceduta. A essere diversa invece è la società oggi molto più progredita rispetto al passato. Per combattere le nuove povertà bisogna accrescere la libertà economica. «Non bisogna pensare che la storia si ripeta. La convivenza con i patogeni è una delle grandi sfide delle comunità umane, sin dalla rivoluzione agricola. Purtroppo noi reagiamo all’incontro con un nuovo patogeno sulla base di istinti innati e memorie ancestrali, replicando schemi che risalgono a periodi e situazioni radicalmente diverse dall’attuale», spiega Alberto Mingardi, Professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università Iulm di Milano e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, oltre che autore – con Gilberto Corbellini – di La società chiusa in casa. «Anziché provare a imparare, consapevolmente, da un passato che non ricordiamo, ci siamo trovati a replicarlo presumendo che solo decisioni top down, solo tentativi di direzione della società dall’alto e limitazioni della libertà individuale potessero portarci fuori dalla pandemia. Paradossalmente, le uniche vere armi contro il virus ci sono venute invece dalla società aperta e dal libero mercato: i vaccini e i nuovi trattamenti che ci consentiranno di provare a convivere con Sars-Cov-2».

Qual è l’analisi sui maggiori problemi che persistono a due anni dallo scoppio della pandemia?

«Siamo la società più alfabetizzata e più connessa della storia, ma paradossalmente questo ha fatto più male che bene: anziché dare messaggi e indicazioni chiare, anche rispetto ai limiti inevitabili della conoscenza di un fenomeno nuovo, abbiamo trasformato la pandemia in un gigantesco talk show in cui pagano l’assertività e l’allarmismo. Soprattutto in Italia il discorso pubblico e la politica sono stati e continuano a essere fortemente paternalisti. I cittadini non sono stati considerati adulti da informare e persuadere, per esempio a vaccinarsi, ma bambini ai quali imporre che cosa fare, trattandoli anche come fossero un po’ scemi. Se considerassimo gli italiani dei cittadini, non cambieremmo le regole del gioco una volta ogni quindici giorni, come abbiamo fatto e continuiamo a fare, fra l’altro presumendo che le persone debbano restare continuamente connesse per capire in quali esercizi commerciali possono andare a fare la spesa o a che condizioni possono prendere i mezzi pubblici. Se considerassimo i cittadini degli adulti, proveremmo a informarli e a persuaderli, non ci limiteremmo a provare a spaventarli e a imporre loro divieti».

La povertà è in forte aumento, che cosa si potrebbe fare per aiutare le tante famiglie in difficoltà?

«Si dovrebbe pensare alle opportunità che un’economia riserva per creare ricchezza, piuttosto che a come spartire pezzi di spesa pubblica. Soprattutto dopo i lockdown dovrebbe esserci chiaro che per le persone il lavoro non è solo una fatica necessaria per pagarsi le spese. Aggiunge anche un po’ di significato alla vita, rappresenta una dimensione dell’identità. Le persone obbligate a non lavorare sono state male indipendentemente dai Ristori e anche dagli errori e dalle assurdità nell’erogazione dei Ristori. Sono state male perché per loro – come per tutti – è importante essere parte attiva della società, provare a realizzarsi. Quando si parla di povertà, si parla di tutto meno di quello di cui si dovrebbe parlare, cioè come accrescere la libertà economica e le opportunità per le persone».

Il PNRR può essere considerato un valido aiuto per la ripartenza del Paese o servirebbe altro?

«È perfetto per la politica italiana dove domina il pensiero magico. Arriverà questo fiume di quattrini e quindi “andrà tutto bene”. Perché? In che senso questi investimenti risolvono i problemi di lungo periodo del Paese? Come dovrebbero aumentare il suo tasso di crescita potenziale, al punto da rendere sostenibile il nostro debito pubblico, incluso quello che abbiamo allegramente creato non solo nel 2020, ma anche nel 2021? I partiti, che influenzano la distribuzione dei quattrini, sono tutti felici, ma che questo vada, nel medio termine, a vantaggio del Paese ho i miei dubbi».

Quali sono le decisioni più disastrose messe in campo che hanno danneggiato e danneggiano i cittadini?

«Mi concentrerei su due grandi questioni. La prima: si sono prese e si continuano a prendere delle decisioni pensando che, siccome c’è il Covid-19, l’unica priorità sia contenere i contagi. Nell’immediato, nelle primissime settimane dopo l’apparizione del virus, questo poteva essere giustificato, ma oggi sappiamo che le misure non farmaceutiche hanno contraccolpi rilevanti non solo sull’economia, ma anche sulla socialità e sulla tenuta psicologica delle persone, per non dire dei tassi di apprendimento dei ragazzi che vanno a scuola…».

La seconda?

«Abbiamo buttato a mare ogni residuo di certezza del diritto che ancora sopravviveva in questo Paese. È chiaro che, innanzi a un fenomeno che cambia ed evolve come la pandemia, il decisore deve ricorrere a misure discrezionali, ma quando le cambia con questa frequenza e in modo spesse volte apertamente arbitrario va a finire che le persone giustamente non ci capiscono più nulla. Inoltre, sempre più spesso le norme non sono giustificate dalla condizione epidemiologica, ma da valutazioni di ordine morale nei confronti delle persone che non si sono vaccinate».

Dove vanno le nostre democrazie tra un’emergenza sanitaria e l’altra?

«Dipende da Paese a Paese e forse anche da territorio a territorio. Avevamo alcune intuizioni sul ruolo giocato dalla cultura e dalle istituzioni, prima della pandemia e sono state contraddette dai fatti. Chi avrebbe mai detto che la Svezia sarebbe stato il Paese più rispettoso delle libertà anche economiche dei singoli; che l’Italia avrebbe fatto il lockdown più rigoroso e più simile a quello cinese delle democrazie occidentali; che il Portogallo sarebbe stato il Paese con la più alta percentuale di vaccinati? Le nostre certezze sui “caratteri nazionali” oggi vacillano. Questo dovrebbe suggerirci che il futuro delle diverse democrazie è difficile da prevedere».

Per comprendere il mondo post pandemia servono più scienze sociali?

«Sarebbe servita una polifonia di voci, esperti presi da campi diversi e messi a confronto. Uno dei problemi che ci porteremo appresso è “come” i decisori “comprano” l’expertise rilevante. Dovremmo trovare sistemi che consentano più pluralismo, affinché il politico abbia di fronte un quadro opportunamente complesso. Questo vuol dire anche più scienze sociali, senz’altro. Ma sono pessimista. Se pensiamo a quel che “andava di moda” negli ultimi anni, senz’altro ci viene in mente l’economia comportamentale. Non è che non siamo stati in grado di usare le scienze sociali per creare nuove conoscenze in un momento difficile: non abbiamo utilizzato, a livello di decisione pubblica, le conoscenze disponibili».

In futuro come si potrà passare da una “società chiusa in casa” ad una “società aperta”?

«A me sembra che molte persone si trovino benissimo nella “società chiusa in casa” e che la pandemia abbia dato grandi soddisfazioni a tutti coloro che amano dire al loro prossimo come comportarsi. Siamo essere umani, siamo fatti così: quando ci mettiamo alla guida abbiamo un’opinione su dove debba andare la macchina che sta davanti a noi, sulla velocità che debba tenere quella a sinistra, eccetera. La società aperta richiede il difficile esercizio di imparare a non dire agli altri come si debbono comportare. Quando penso alle persone che dal balcone urlavano ai runner di andarsene a casa, o a quelli che sbraitano contro chi, da solo e all’aperto, non si mette la mascherina, penso che sia un esercizio al di fuori della nostra portata».           ©

Matteo Martinasso

Crediti: Alberto Mingardi