L’eolico se ne va in alto mare, minimizzando l’impatto paesaggistico e di visibilità dalle coste. Da tempo, in particolare in Italia, l’installazione di impianti eolici è attorniata da controversie legate all’inquinamento visivo e acustico che le pale generano sulle circostanze. Le tecnologie offshore superano l’annosa questione portando gli impianti in mare. «L’eolico offshore in Italia si sta aprendo grazie alle piattaforme galleggianti, che consentono di installare impianti anche a batimetrie profonde, a diversi chilometri dalla costa» dice Davide Astiaso Garcia, segretario generale di ANEV (Associazione nazionale energia del vento) e professore della Sapienza. «Con le turbine a fondazioni fisse non era possibile farlo, perché la profondità del Mediterraneo non permetteva di posizionare impianti troppo lontano dalla costa. Questo bloccava i progetti, perché le installazioni vicine alla costa avevano un impatto paesaggistico ritenuto spesso eccessivo dalle soprintendenze». Un risvolto di grande interesse per gli investitori, visto che in potenziale ingigantisce la superficie su cui si potrà produrre l’energia del vento.
Quali sono a suo parere i principali vantaggi dell’eolico offshore?
Il vantaggio principale è un allargamento del campo d’azione nell’ottica della transizione, della decarbonizzazione e dell’indipendenza energetica del nostro Paese. È tema strategico di questi anni per via del cambiamento climatico, ora più che mai, dopo le problematiche scaturite dall’approvvigionamento del gas russo. Un altro interessante vantaggio è quello di avere tantissima superficie a disposizione, e con ventosità adeguata, ma allo stesso tempo produrre energia con un impatto paesaggistico molto basso o addirittura nullo: molti impianti sono progettati per stare a migliaia di km dalla costa, a distanze tali da non causare problemi di visibilità.
E gli svantaggi?
La principale criticità è la difficoltà nel trasportare l’energia: i costi sono chiaramente più alti rispetto all’eolico a terra, che ormai ha raggiunto un livello di maturità tecnologica che gli permette di essere competitivo economicamente senza particolari incentivi. In ogni modo, così come era stato per l’eolico onshore, ogni tecnologia meno sviluppata parte con costi maggiori. Poi, grazie all’ampliamento del mercato e al crescere dell’interesse da parte degli investitori, si riesce a raggiungere l’avanzamento tecnologico necessario per abbassarli.
L’eolico offshore potrebbe dunque sostituire vantaggiosamente la produzione a terra?
Io credo che vada piuttosto ad aggiungere che a sostituire, ma che le due modalità non siano assolutamente in contrasto tra loro: ogni tecnologia rinnovabile deve dare il proprio contributo per aumentare il più possibile la produzione di energia pulita nel nostro paese. Solo così potremo arrivare ad una indipendenza energetica dall’estero. Più energia verde produciamo, meglio è, perché dovremo raggiungere il 70% della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nei prossimi 8 anni. Di conseguenza, ciò che contribuisce a creare spazi e opportunità per produrre energia in Italia utilizzando fonti pulite è sempre ben accetto. In particolare se lo fa senza produrre emissioni di gas climalteranti e senza dipendere da alcuna relazione internazionale.
Quanto alle turbine galleggianti, il cosiddetto floating wind, pensa presentino già in questa fase interesse per gli investitori?
Sì, già oggi offrono vantaggi interessanti per chi investe. Esiste una bozza di decreto, circolante da alcune settimane (il cosiddetto DM Fer 2), che dovrebbe regolare le aste per le tecnologie rinnovabili al momento meno sviluppate, tra cui l’eolico offshore, nei prossimi 5 anni. Ha allocato, almeno nella bozza iniziale, un contingente di 3.500 MW di floating wind. Gli investitori sono attratti, e si vede anche dal numero di richieste di allaccio alla rete che sono state fatte a terna: siamo nell’ordine di 30.000/ 40.000 MW. Le tariffe della bozza di decreto sono consone, con impianti di taglia meno grande. Le prospettive sono di un abbassamento dei costi, con ulteriore aumento dell’appeal sugli investitori.
L’idrogeno può essere già da ora una valida soluzione per collegare le piattaforme alla rete onshore o restano ostacoli tecnologici forti?
L’idrogeno è certamente una valida soluzione e sono molti i fondi del PNRR stanziati per la produzione di idrogeno verde, quello prodotto da fonti rinnovabili, per cui ci battiamo. Si tratta di un vettore energetico che può essere efficacemente utilizzato per aumentare la flessibilità del mercato energetico, come anche per facilitare l’incontro tra domanda e offerta. Ci sono, certo, tuttora delle problematiche di efficienza, ma dipende dall’utilizzo che se ne fa. Produrre l’idrogeno da energia elettrica per poi riconvertirlo può avere vantaggi economici, ma cedendo un po’ all’efficienza energetica. Anche per la mobilità pesante, sia a terra sia in mare, credo che prenderà sempre più piede, permettendo di sfruttare l’energia degli impianti onshore senza riconvertirla, e magari senza spostarla.
Ultimamente si parla molto di progetti ibridi. La cornice normativa è pronta?
Purtroppo le norme non sono ancora sufficientemente chiare, con varie lacune e divergenze di interpretazione. Noi stiamo chiedendo, non solo per i progetti ibridi, ma per ciascun tipo di progetto rinnovabile, una semplificazione, che non vuol dire trattare i progetti in modo superficiale, ma avere progetti e regole chiare e univoche per tutto il territorio nazionale. È un fatto importante perché ogni operatore possa mettere a punto la sua proposta di progetto, prendendosi i suoi rischi, ma avendo garanzia di una risposta pronta e ben motivata da parte della controparte pubblica.
La mancanza di regolamentazione può costituire, in una certa misura, anche un’opportunità di guadagno per l’investitore?
Al momento no. Credo che generi un’aleatorietà difficilmente gestibile, dall’imprenditore quanto dal finanziatore, che in ultima analisi compromette la stessa immagine del mercato.
Marco Battistone
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