giovedì, 14 Novembre 2024

Le infrastrutture del web nei fondali marini: è un nuovo business

Sommario

Internet delle cose… sott’acqua. Tra le tecnologie del futuro ce ne è una di cui si sente parlare ancora poco, ma che promette di essere tra le più rivoluzionarie perché mette al centro un ecosistema per lo più ancora inesplorato: gli oceani e i fondali. Oltre due terzi della Terra sono costituiti da acqua, eppure questi ambienti sono conosciuti «perfino meno di alcuni Pianeti lontani come Marte», dice Chiara Petrioli, ordinaria di Informatica alla Sapienza e CEO della deep-tech romana WSense. Nata come spin-off della Sapienza nel 2017, la scaleup è stata selezionata a gennaio 2023 nel corso del World Economic Forum di Davos come top innovator dell’UpLink Ocean Data Challenge. L’azienda persegue l’obiettivo di innovare in due direzioni: creando tecnologie applicabili agli ambienti subacquei e agli abissi oceanici, ma anche per la salvaguardia dell’ambiente, contribuendo ad arginare il cambiamento climatico.

WSense è considerata una eccellenza europea nell’Internet of Underwater Things (IoUT). Cosa ha fatto sì che si arrivasse a questo riconoscimento?

«Lo IoUT è la capacità di mettere in rete le cose anche a 3mila metri di profondità. WSense è stata la prima realtà a livello mondiale che ha portato Internet in profondità per la raccolta dei Big Data, elemento chiave nella lotta globale al cambiamento climatico. La nostra specializzazione è quella di digitalizzare le infrastrutture offshore, che attraverso l’Internet delle cose sottomarine consentono il monitoraggio e la comunicazione subacquea senza fili. Si sono così creati nuovi scenari di sviluppo su un mercato che di fatto prima non c’era».

Perché si tratta di una tecnologia così innovativa?

«Le tecnologie radio a cui siamo abituati sulla Terra non funzionano in mare. Se utilizzassimo il WiFi sott’acqua, le onde radio non si propagherebbero se non nel raggio di pochi centimetri. Quello che fa WSense è invece utilizzare le onde acustiche multi-frequenza. Sono simili a quelle utilizzate dai delfini, senza però interferire con queste specie. In più ci sono le tecnologie ottiche senza fili. Mettiamo in collegamento sensori subacquei di qualsiasi casa produttrice e veicoli robotici autonomi per comunicazioni wireless sottomarine in tempo reale, che sono affidabili e sicure, senza impattare sui fondali». 

Questa tecnologia aiuta anche nella protezione dell’ambiente?

«Il cambiamento climatico rappresenta il maggior rischio a breve termine per l’umanità. Il monitoraggio degli oceani, ma anche dei mari chiusi come il Mediterraneo, è fondamentale: assorbono circa un terzo della CO2 circolante. Abbiamo di fronte il dramma dell’inquinamento marino causato da sostanze chimiche, oltre che plastiche e microplastiche. Attraverso i big data e la nostra capacità di acquisirli e diffonderli si può fare luce su quanto avviene in profondità».

In che modo?

«I nostri sistemi di comunicazione subacquea sono in grado di monitorare 24 ore su 24 la concentrazione di qualsiasi sostanza estranea all’ambiente marino originale, lanciare allarmi e permettere interventi mirati di pulizia e risanamento. Ma non solo. I Big Data possono fornire informazioni cruciali agli istituti di ricerca e a chi opera in tutti i settori della Blue Economy. Si parla di qualità ambientale, acquacoltura, porti e infrastrutture critiche, tra cui quelle energetiche, come i gasdotti, gli oleodotti, le piattaforme di estrazione e i cavi di trasmissione dell’elettricità».

Definiamo la Blue Economy

«Generalmente per Blue Economy si intende un modello di economia dedicato alla creazione di un sistema economico sostenibile attraverso l’innovazione tecnologica. Tuttavia, spesso ci si riferisce principalmente agli oceani e alla loro basilare importanza per la nostra stessa sopravvivenza. Esiste un enorme potenziale legato a questo settore. Il 30% delle emissioni di carbonio rilasciate nell’atmosfera dall’uso di combustibili fossili viene catturato dagli oceani, oltre che dalle foreste. Ma va anche considerato l’impatto economico».

Quali sono i suoi numeri a livello italiano e globale?

«Si stima che abbia un valore di oltre 1.500 miliardi di dollari l’anno nel mondo e si prevede che questa cifra raddoppierà fino a raggiungere i 3.000 miliardi di dollari entro il 2030. Per l’Europa, la Blue Economy gioca un ruolo fondamentale: genera circa 667 miliardi di euro di fatturato e 183 miliardi di euro di valore aggiunto lordo, impiegando quasi 4,45 milioni di persone, con un peso quasi doppio rispetto a quello degli Stati Uniti».

Per l’Italia si aprono opportunità legate al settore?

«In Italia è nato da poco il Polo Nazionale della Dimensione Subacquea. Sarà uno dei pilastri della partnership tra la Marina Militare, gli operatori e gli stakeholder per proteggere le infrastrutture critiche sottomarine. Il contesto subacqueo è sempre più importante per la sicurezza e gli interessi nazionali, e sempre più soggetto ad azioni ostili. In questo modo si è data concretezza a una visione strategica. Le soluzioni e la capacità di sviluppo tecnologico di WSense, insieme alla volontà dei player industriali di fare ecosistema, possono realmente portare il Paese alla frontiera dell’innovazione e alla leadership internazionale nell’internet dei mari. Questo posizionerebbe anche la nostra azienda al centro dell’ecosistema italiano di eccellenza per la realizzazione di sistemi di monitoraggio e di controllo subacqueo».

Quali saranno le applicazioni future di WSense?

«Questa innovazione, oltre alle necessità del settore sportivo, aprirà opportunità ai comparti del turismo subacqueo, sia culturale sia naturalistico. Questo perché anche tablet, smartwatch e altri dispositivi potranno entrare in comunicazione tra loro nella profondità dei fondali marini. Ma non solo. Esiste anche tutto il settore delle infrastrutture e sicurezza, e il nostro recente accordo con Fincantieri va in questa direzione. Abbiamo firmato un Memorandum of Understanding per avviare una collaborazione in alcune aree, tra cui le comunicazioni adattative subacquee e il relativo network multimodale».

Il suo percorso è tutto nelle materie STEM, dove la presenza femminile è ancora scarseggiante. Cosa possiamo dire alle ragazze di oggi per incentivarle verso questi percorsi?

«Le donne devono sapere che hanno una grandissima capacità di sviluppare delle idee multidisciplinari. Quando si parla di Tech, quindi di tecnologie, di progettare un futuro diverso, si pensa si tratti di concetti aridi ma in realtà si tratta di affrontare problemi reali, che sono proprio il cuore dell’interesse delle donne. Pensiamo per esempio alla sostenibilità: quando si parla di ricerca e di innovazione tecnologica si parla anche di questo, di sviluppo sostenibile, un tema caro alle nuove generazioni. Ma le idee innovative possono portare a soluzioni anche nella sicurezza e alla salute delle persone. Si può cambiare il mondo».

Lei è tra le top 2% world scientist della Stanford University. Come si arriva a questi livelli?

«Come donna ovviamente ho dovuto affrontare molte più difficoltà. Ma gli ostacoli creano quella resilienza che è la premessa per sviluppare con successo idee imprenditoriali. Queste sono le motivazioni per cui, contro tutti gli stereotipi, il mondo dell’imprenditoria femminile innovativa e tecnologica spesso ha una spinta in più e porta a dei risultati che spesso sono migliori rispetto alle aziende tradizionali, magari a guida maschile. Il percorso delle donne nel campo della ricerca, dell’innovazione e anche nell’industria tipicamente è più difficile. Il risultato è però che si portano delle visioni che possono dare un contributo diverso alla risoluzione dei problemi».

Le donne insomma sanno fare meglio degli uomini?

«Va messa in luce più che altro la capacità di sviluppare visioni innovative cosiddette disruptive da parte di imprese a leadership femminile. È un aspetto che mi sta molto a cuore, e che ho potuto sperimentare anche grazie alla partecipazione al network di donne eccezionali di GammaDonna».

È stata anche prorettrice della sua università, La Sapienza. Il salto è stato quindi dalla ricerca all’imprenditoria…

«La mia esperienza mi ha permesso di imparare tramite i laboratori di ricerca universitaria a fare innovazione, quindi a riuscire a vedere nuove strade. Questo è qualcosa che non di rado nell’universo della ricerca tende a far nascere delle deep tech».

Di recente è divenuta membro del board del Consiglio europeo dell’innovazione, l’EIC. Qual è il ruolo di questo organismo? 

«È l’organo istituito per supportare a livello europeo l’innovazione di punta, il trasferimento tecnologico, e sviluppare tecnologie innovative dalla portata rivoluzionaria. Il board EIC – di cui sono appena entrata a far parte – ha un ruolo centrale nel guidare la strategia e l’attuazione di tutte le attività del programma di innovazione più importante d’Europa. Il suo bilancio è da oltre 10 miliardi di euro».

Quali obiettivi si prefigge per il suo mandato?

«Sicuramente porterò la mia esperienza per affiancare gli altri membri del Board, che sono di 17 nazionalità diverse».                             

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📸 Credits: Canva

Articolo tratto dal numero del 1° marzo 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Giornalista professionista, classe 1981, di Roma. Fin da piccola con la passione per il giornalismo, dopo la laurea in Giurisprudenza e qualche esperienza all’estero ho cominciato a scrivere. All’inizio di cinema e spettacoli, poi di temi economici, legati in particolare al mondo del lavoro. Settore di cui mi occupo principalmente per Il Bollettino.