Il numero delle donazioni economiche in Italia diminuisce: i cittadini che affermano di aver donato denaro a un’associazione almeno una volta passano dal 12,8% del 2022 all’11% del 2023 (fonte: ISTAT). «Non è un dato stabile. Sono tre anni che il dato oscilla su e giù. Aspettiamo quindi il 2024 per avere un quadro che potrebbe dirci come viene montato il puzzle», dice Cinzia Di Stasio, Segretario Generale dell’Istituto Italiano della Donazione. Contestualmente, per BVA Doxa crescono le donazioni informali, ovvero quelle che non transitano da organizzazioni non profit, salendo al 55% nel 2023 rispetto al 50% raggiunto nel 2022. «È evidente che la voglia di donare cresce, ma le associazioni devono imparare a intercettare i nuovi bisogni dei donatori, che chiedono di accorciare le distanze».
Diminuiscono le donazioni, ma si parla di ripresina: perché?
«Al momento, possiamo dire che i donatori ad associazione sembrerebbero diminuire. Però quelli informali, coloro i quali donano ma non transitano attraverso le organizzazioni non profit, sembrerebbero aumentare. Anche per questo abbiamo parlato di ripresina. Ci sono alcuni dati che sembrerebbero in controtendenza l’uno con l’altro, pur facendo parte dello stesso sistema».
Analizzando il profilo dei donatori, troviamo che per la maggior parte sono persone di 45-74 anni, mentre la fascia meno generosa sono i giovani 14-24 anni. Che significato hanno questi numeri?
«È un quadro consolidato, un dato che torna quasi sempre fra le nostri indagini ed è probabilmente legato alle condizioni economiche. Il profilo del donatore resta più o meno sempre lo stesso. Ci sono dei segnali di protagonismo giovanile. Però ancora prevale la timidezza in questo ambito. I giovani nella fascia 14-24 anni sono sicuramente quelli senza reddito, poiché impegnati negli studi. La donazione economica è un po’ complicata. In compenso, è probabile che molti ragazzi chiedano alle famiglie di donare. Quindi diventano una cassa di risonanza verso gli adulti di riferimento».
Rimanendo sempre sul profilo del donatore, in testa ci sono i laureati per distacco rispetto a diplomati e a chi non ha un titolo di studio. Secondo lei è una questione culturale o di disponibilità economica?
«Sono entrambi elementi da considerare. Sicuramente è probabile che chi ha un titolo di studio più elevato occupi anche delle posizioni lavorative più remunerative e abbia quindi maggiori disponibilità economiche. La correlazione c’è, ma esiste anche un altro aspetto. Dai dati del rapporto Bes 2023 emerge che il livello di studio è associato anche ad altri indicatori, come la partecipazione civile e politica e quella sociale. Un elemento fondamentale è il grado di fiducia. ISTAT chiede nell’indagine multiscopo che fa annualmente se la gran parte delle persone sia degna di fiducia. Non è legato chiaramente a un dato economico ma a una percezione della realtà, di come sentiamo gli altri. Cresce all’avanzare del titolo di studio. Quindi disporre di strumenti culturali più ampi è importante per poter avere più fiducia nel futuro e negli altri. In generale, condizioni culturali migliori permettono di accedere maggiormente alla vita sociale, civica e politica e quindi di donare di più».
Andando sul genere, invece, dai dati emerge una prevalenza di donne che donano rispetto agli uomini. Come mai questa differenza?
«È un dato che non si è mai spostato. I donatori economici a maggioranza sono donne. Questo non vuol dire però che non ci siano uomini. Storicamente, è sempre stato così. C’è un coinvolgimento emotivo più alto forse, si fanno persuadere di più dalle cause sociali. Anche se non abbiamo una spiegazione chiarissima in questo senso».
Anche geograficamente, c’è un divario enorme fra Nord e Sud, con il Mezzogiorno che viene doppiato dal Settentrione. Sono numeri che vi aspettavate?
«Purtroppo sì. È un dato che non cambia nel tempo. Nord-Ovest e Nord-Est trainano la capacità di donare. Il Nord nel complesso arriva quasi al 14%; Sud, Isole e Sardegna si fermano appena al 6,8%. Sicuramente economicamente c’è un divario che si è sempre mantenuto costante negli anni, anche nel livello di istruzione. Poi, numericamente al sud c’è meno concentrazione di non profit. E quindi c’è meno facilità di incontro fra domanda e offerta delle donazioni».
Tra le cause più sostenute, al primo posto c’è la ricerca medico-scientifica con il 38%, seguita dagli aiuti umanitari o di emergenza – inclusi quelli a Ucraina ed Emilia Romagna – con il 35%: significa che il donatore è più sensibile di fronte a situazioni drammatiche?
«È sempre l’ambito preferito. In tutto quello che è emergenza, il donatore risponde bene. Forse per l’onda emotiva, ma anche per la disponibilità degli strumenti. Si mette a disposizione ad esempio l’SMS solidale e ci sono cifre più basse e alla portata di tutti. Poi entra in gioco la chiamata diretta: dal Covid-19 in poi, ci sono stati tanti richiami a donare da parte della Protezione Civile. Durante le grandi emergenze che storicamente ci ricordiamo in Italia (terremoto dell’Aquila, pandemia, il primo tsunami di qualche decennio fa) le donazioni sono sempre state notevoli: c’è anche un grande richiamo a donare dal punto di vista mediatico. Quanto alla ricerca scientifica, affronta problemi che che in un modo o nell’altro ci hanno già interessato a livello familiare».
Tralasciando i picchi degli importi medi donati fra il 2020 e il 2022, in corrispondenza della pandemia e della guerra in Ucraina (80 euro a testa nel 2020, 69 nel 2022), nel 2023 in Italia si registra un notevole calo che porta a 56 euro l’importo medio donato a organizzazioni non-profit. Come leggere questo dato?
«Non è un momento così felice da un punto di vista economico. E questo poi si riflette sulla media. Essendoci state anche tante emergenze, nel momento in cui devolvo denaro durante le emergenze, sostituisco la donazione che solitamente faccio a Natale o a Pasqua. È anche un nuovo modo di donare: di meno, ma più volte».
Il cosiddetto Pandoro-Gate che ha coinvolto l’influencer Chiara Ferragni e il marchio Balocco e Dolci Preziosi, sembra non aver influenzato il mondo delle raccolte fondi. A registrare conseguenze negative, su un totale di 347 realtà interpellate dall’Istituto Italiano della Donazione, è solo il 5% delle associazioni non profit…
«Siamo stati molto contenti di aver registrato questo dato. Eravamo molto preoccupati, certo, convinti che il caso Ferragni potesse essere devastante. Durante quel periodo abbiamo ricevuto tante telefonate in cui i donatori erano molto confusi, non capendo di cosa si stesse parlando. Invece hanno tenuto sia le donazioni private sia quelle delle aziende. Vuol dire che il terzo settore si sta strutturando in maniera trasparente, con una comunicazione che viene pretesa da chi dona e porta gli enti a comunicare in un certo modo. Tutto questo nel lungo periodo paga. Abbiamo assistito a un’ottima tenuta del settore e ci auguriamo continui così».
I dati però ci dicono che due italiani su dieci hanno dichiarato di aver fatto almeno una donazione negli ultimi anni o perché convinti da una pubblicità, o perché l’iniziativa era sostenuta dalla collaborazione con un marchio famoso o perché nell’organizzazione della raccolta fondi era presente anche il ruolo di un influencer. Quindi il ruolo del testimonial, caso Ferragni a parte, è comunque importante?
«Noi siamo partiti con una campagna il 26 settembre scorso – Donare fa bene se lo fai bene – che spiega tutto questo. Una campagna che aiuta il donatore e che dà risposte concrete. Anche l’utilizzo corretto degli influencer e i testimonial, se le cose si fanno in maniera trasparente, vanno benissimo. Bisogna saper comunicare. È fondamentale per poter parlare e coinvolgere i giovani».
In merito alle donazioni online, colpisce il dato delle organizzazioni non profit che dichiarano di non aver utilizzato strumenti online per raccogliere fondi: 58% del 2023 rispetto al 44% del 2022. Perché?
«Durante il Covid-19 l’online è stato una grande risorsa. Ora c’è un po’ di pigrizia probabilmente, sia da parte del donatore sia da parte dell’ente. Soprattutto gli over 60, che sono molto abitudinari: si utilizza ad esempio il bollettino postale e tutto quello che accompagna fisicamente la donazione. Anche gli enti seguono quella che è la preferenza del donatore, non c’è molto il coraggio di osare. Sentiamo che però qualcosa sta cambiando. Bisogna essere bravi a comunicare che lo strumento online è affidabile tanto quanto la donazione in contanti. C’è un po’ di diffidenza in generale e bisogna lavorare forse sulla sicurezza, che è ancora oggi lacunosa». ©
Articolo tratto dal numero del 15 novembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!
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