martedì, 30 Aprile 2024

La guerra frena la transizione: a che punto siamo con il Green deal?

green deal

Se sotto il profilo economico e umanitario, il conflitto russo ucraino ha un impatto devastante, sotto quello green ed energetico potrebbe costituire una svolta, in chiave positiva. A chi si aspetta che il sogno ecologico europeo verrà sepolto sotto le macerie del conflitto, gli esperti rispondono picche, con dati e ragioni valide.

«In una economia di mercato l’aumento dei prezzi delle fonti fossili e dell’elettricità è, in linea di principio, in grado di promuovere una maggiore competitività delle rinnovabili come fonte interna di energia, anche al di là degli obiettivi puramente ambientali. Inoltre, l’aumento dei prezzi contribuirebbe alla riduzione dei consumi», dice Francesco Gullì, Professore di Economia applicata all’Università Bocconi ed esperto di economia e politica ambientale.

Per il professore «la guerra in Ucraina è solo uno degli elementi esacerbanti una tensione sui prezzi già iniziata a settembre del 2021, cui non sono estranee le politiche di decarbonizzazione». Su questo aspetto Gullì aggiunge che «gli annunci “radicalizzati” a livello istituzionali e mediatico, hanno avuto ripercussioni sugli investimenti per supportare l’esplorazione e la ricerca di idrocarburi, con conseguente rallentamento dell’espansione e mantenimento delle riserve (anche solo percepito) e incremento delle condizioni di scarsità economica che impatta sulla evoluzione dei prezzi. Quindi la guerra in Ucraina è solo uno degli elementi di criticità in un contesto di tensione cui, come detto, non sono estranei gli obiettivi più che legittimi, ma eccessivamente conclamati, della cosiddetta transizione ecologica». 

Che impatto avrà la guerra sui tempi di attuazione del Green Deal europeo?

«Decisamente l’elemento contingente non può che distrarre i politici rispetto agli obiettivi ambientali e suggerire delle dilazioni. I tempi potrebbero allungarsi ma per motivi economici più che politici. Questo nel breve-medio termine. Nel lungo ovviamente le cose cambiano, essendo le fonti rinnovabili una risorsa interna in grado di sostituire (ma parzialmente) gli idrocarburi di importazione».

Quali sono gli aspetti della programmazione maggiormente colpiti?

«A livello globale e regionale, la necessità nel breve e medio termine di realizzare progetti di indipendenza energetica attraverso la diversificazione dell’approvvigionamento energetico da idrocarburi, potrà distrarre risorse finanziarie dalla realizzazione di progetti di sviluppo sulle fonti rinnovabili (ovviamente nel complesso)».

Rischiamo davvero di ritornare a una strategia energetica fondata sull’uso del carbone?

«Il carbone è la fonte energetica economicamente più abbondante allo stato attuale. Il rapporto fra riserve e produzione è di 110 anni contro i circa 60 del petrolio e del gas. Circa il 35% della produzione elettrica globale è basata sul carbone. Che questa fonte potesse essere totalmente esclusa in tempi relativamente brevi era semplice utopia. Un ritorno forse (e sottolineo forse) altrettanto. Ma un azzeramento era ed è impensabile».

L’opposizione degli ambientalisti su molte infrastrutture essenziali per l’utilizzo di fonti di energia pulita, la classifica come un errore tout court?

«È un aspetto piuttosto controverso e, in linea di principio, legato alla percezione della invasività delle infrastrutture energetiche. Tutte hanno un impatto ambientale, è innegabile. Alcune più altre meno. Resta da stabilire come conciliare tale impatto con le esigenze di mantenere lo stesso stile di vita e, in termini economici più generali, lo stesso livello di reddito complessivo. Le fonti rinnovabili possono dare un contributo significativo in tal senso, ma non risolutivo almeno nel medio termine. In un Paese avanzato la produzione rinnovabile non può fare a meno della integrazione con la produzione fossile, almeno per un bel po’ di tempo e per ragioni puramente tecniche, difficili da sintetizzare qui. Gli ostacoli al loro sviluppo certamente non aiutano nemmeno a garantire questo contributo integrativo». 

Come attuare in Italia gli obiettivi previsti dall’Europa per la transizione verso una Europa Carbon Neutral?

«Da parte mia, la risposta consiste nel far sì che i mercati funzionino. Gli anni ’90 del secolo scorso sono stati l’era delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, che hanno portato a una vera e propria rivoluzione. Lasciamo che diano anche loro un adeguato contributo. Perciò continuare nel processo di snellimento della regolazione e della burocrazia».

In che modo la strategia dell’idrogeno, rendere le imprese più competitive e quali sono le attese?

«Non credo che l’idrogeno sia la risposta risolutiva. È una tecnologia “non innovativa”. Già proposta con forza 20 anni fa con risultati negativi. Non mi sembra che ci siano, sul piano dell’innovazione tecnologica, sostanziali miglioramenti. Ma nessuna preclusione purché, anche in questo caso, sia il mercato (in senso ampio) a fare il proprio lavoro».

Che aspetto avrà la nostra economia quando la transizione energetica sarà completa?

«Una transizione è una transizione. Questo implica un periodo, necessariamente anche lungo, di coesistenza fra diverse filiere energetiche, inclusa quella degli idrocarburi. Quindi non mi sento di immaginare, almeno nel medio-lungo termine, una transizione completa. Ma ripeto, il concetto di transizione e di completezza sono a mio avviso in contraddizione. Ritengo che un approvvigionamento energetico basato solo sulle fonti rinnovabili sia impensabile sul piano tecnico-economico. Del resto, la storia dimostra che, nelle sue varie fasi, nessuna fonte abbia mai completamente sostituito le altre, ma che si sia arrivati a una sorta di coesistenza (valga per tutto quanto sopra citato per il carbone). Se poi vogliamo andare verso una completa riconversione prepariamoci a sostenere maggiori costi dell’energia – che non considero necessariamente un male – e alla consapevolezza dell’esigenza di un cambiamento nello stile di vita».          ©