mercoledì, 24 Aprile 2024

Peserico, Assorologi: «In Borsa i titoli hanno tenuto. Adesso il mercato ripartirà»

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Con il mercato cinese in rilancio, la situazione per il comparto orologeria è meno nera di quella che potrebbe sembrare. «L’arrivo del vaccino è un buon segnale e schiarisce l’orizzonte. Il mercato ripartirà», dice Mario Peserico, Presidente di Assorologi. «Se il secondo semestre del 2021 dovesse essere negativo, allora sì che sarebbe una vera tragedia con molte aziende che non sarebbero più in grado di rimettersi in piedi».

Una ripartenza legata ovviamente anche al Recovery Plan?

«Dovrebbe. Ma di questo piano ancora non si ha concretezza. Gli altri paesi sono pronti e noi siamo ancora a litigare sulla governance definitiva. Sono sicuro che poi alla fine si arriverà al punto, come succede sempre in Italia. Ma preferirei fossimo meno creativi e più rigorosi, come i tedeschi. Forse le cose funzionerebbero di più».

Il Covid-19 ha colpito duro tutti i settori del lusso, quanto ha impattato sul mercato dell’orologio?

«Il problema più grande sono stati i negozi chiusi per più di due mesi. Il fatturato mancato si è fatto sentire. Post lockdown, il problema principale per i punti vendita di massima notorietà e visibilità che hanno riaperto era la mancanza del turismo e del turismo business, soprattutto per Milano».
Come associazione avete lamentato l’inadeguatezza delle misure messe in atto dal Governo…
«Facciamo parte di Confcommercio, quindi il Governo non si è raffrontato con noi ma con il presidente Sangalli che ha avuto una presenza ultra costante con le dialettiche con l’Esecutivo. Dell’impatto del Covid-19 hanno risentito tutti i Paesi, mica solo noi italiani. Le grandi piazze si sono svuotate ovunque, da Madrid e Berlino. La grande differenza è come sono state affrontate le difficoltà. Da noi molto peggio, perché gli ormai noti ristori, le casse integrazioni e i finanziamenti sappiamo come sono stati elargiti. Per essere più chiari, diciamo che non sono stati distribuiti con la rapidità e l’efficacia svizzera».

Quali sono state le grandi mancanze ?

«Il problema vero è che c’è la sensazione che molto spesso da parte della politica manchi completamente la percezione della realtà. Perché se ad agosto alcuni impiegati non avevano ancora ricevuto le casse integrazioni di maggio e aprile, significa che non ci siamo proprio: la cassa integrazione si paga immediatamente. Anche perché le aziende grandi hanno potuto anticiparle ai propri dipendenti, ma quelle piccole non avevano la capacità di farlo e queste persone sono rimaste a casa senza stipendio. In altri Paesi non è avvenuto. Il dramma della nostra politica è di non avere il senso della responsabilità».

Di cosa avreste avuto bisogno invece?

«Banalmente avremmo chiesto di copiare quello che hanno fatto gli altri. In Svizzera – dopo tre giorni dall’uscita del decreto che stabiliva i ristori – la logica era o di dare il 10 per cento del fatturato dell’anno precedente oppure due mensilità del monte stipendi, erogati immediatamente con un semplice questionario inviato alla banca senza nemmeno il bisogno di allegare il bilancio. Certo che poi loro controllano se le autocertificazioni sono reali, ma intanto uno riesce a vivere. Da noi la logica è stata quella di distribuire a ognuno 25mila euro erogati in tempi biblici. Ma 25mila euro per un’azienda di piccole o medie dimensioni non paga gli stipendi di quel mese insieme a tutti gli altri costi, per non aggiungere il mancato guadagno. Siamo un Paese dove regnano anarchia, burocrazia e contrapposizione a prescindere e questo va a scapito sempre e solo dei cittadini».

Come avete resistito quindi?

«Le scelte sono state individuali. Anche se dei punti comuni per tutti ci sono stati. Tra questi senz’altro il ricorso al digitale, che ha fornito un grande aiuto per sostenere le vendite attraverso l’e-commerce. Sono state numerose le aperture da parte di marchi grandi e piccoli di siti e piattaforme per la vendita diretta».
Il digitale sarà stato fondamentale anche per le presentazioni delle collezioni, visto che fiere e manifestazioni erano impossibili…
«Anche su questo aspetto ognuno ha sposato la politica più congeniale alle logiche aziendali e si è organizzato con modalità proprie e con momenti pensati per la Rete».

I brand dell’orologio come hanno aiutato i negozianti?

«Ciascuno ha concesso dilazioni o facilitazioni nel credito. È chiaro che ci sono diverse specie all’interno dell’associazione, ci sono i grandi gruppi con la capacità di reagire e sopportare certi momenti e altri più piccoli e indipendenti che magari sul breve hanno avuto meno problemi, ma sul lungo ne avranno invece di più. Ognuno affronta il momento in maniera diversa».

Grandi o piccoli realtà: chi ha perso di più?

«Difficile fare una valutazione e non abbiamo ancora stime in questo senso. Di sicuro hanno perso i negozi. Dopodiché i piccoli hanno dovuto fare uno sforzo notevole per la mancanza di alternative. Perdendo il loro unico mercato di riferimento, diversificare altrove è impossibile. I grossi gruppi hanno avuto invece il vantaggio del mercato cinese, che riemergeva e si rilanciava proprio nel momento in cui noi ci dovevamo chiudere in casa».

I marchi dell’orologio quotati in Borsa hanno avuto grandi perdite?

«Hanno senz’altro avuto dei rimbalzi non positivi. C’è da dire però che la Borsa anche nei mesi di lockdown, essendo al traino di Wall street – iniettata di trillions di dollari dalla politica americana e sostanzialmente ai massimi livelli negli Stati Uniti – ha tenuto. Direi che oggi il mercato finanziario è in una bolla clamorosa e probabilmente continuerà in un’altalena, stornando molto meno di quanto la logica immaginasse dovesse fare»

In un momento così precario, l’orologio può essere ancora considerato un buon investimento?

«Assolutamente sì. Ancor più in Italia, uno dei paesi che ha sofferto maggiormente delle diverse contingenze dalla crisi del 2008. Siamo in una sorta di recessione sostanzialmente da dieci anni nel settore orologeria. Il dato però importante è che, sì che sono diminuiti i quantitativi, ma sono aumentati i valori, ovvero è salito il prezzo medio dell’acquisto del consumatore. E questo significa che l’orologio è considerato un bene, un valore imperituro che viene trasmesso, che si mantiene. Il cosiddetto bene rifugio».