Inizio dell’anno in salita per l’Unione Europea. Il vaccino fa tirare un sospiro di sollievo ai Paesi membri ma ora inizia il periodo economicamente più duro. «Usciti dalla pandemia l’Eurozona dovrà affrontare delle scelte difficili sulla sua struttura», dice Matteo Maggiori, vincitore del Fischer Black Prize, premio assegnato ogni due anni dall’American Finance Association al miglior economista finanziario con meno di quarant’anni. L’italiano, oggi docente ordinario di finanza e di macroeconomia internazionale alla Stanford University in California, non vede soluzioni semplici.
L’appoggio delle banche centrali c’è ma prima o poi rimarremo soli. L’Italia a che punto è?
«La cosa migliore che possa fare è non sprecare lo spazio fiscale rimanente e uscire dalla pandemia con un piano credibile di riduzione del debito. Il supporto incondizionato e a tempo indeterminato ai titoli di stato di Paesi economicamente deboli è una forma, magari implicita, di collettivizzazione del debito».
Il Covid-19 muterà il pensiero economico e le politiche economiche nel futuro?
«C’è un dibattito di fondo che credo avrà ripercussioni importanti. In Paesi avanzati la politica monetaria tradizionale è dormiente perché i tassi di interesse sono già a zero. Le banche centrali hanno quindi espanso notevolmente il loro arsenale di strumenti e campo di azione. Il quantitative easing ha generato un’esplosione negli strumenti finanziari, obbligazioni di stato e societarie, da loro detenuti. Nel caso della BCE ha anche dei connotati di trasferimento fiscale tra Paesi membri dell’unione; quella svizzera è intervenuta fortemente e a lungo sul tasso di cambio tra l’euro e il franco svizzero accumulando vaste riserve finanziarie investite all’estero; alcune vorrebbero anche aggiungere al loro mandato politiche che riguardano la diseguaglianza finanziaria e di genere e i cambiamenti climatici. Sebbene le banche centrali non siano state create con questo mandato, l’argomento a favore è che vi rientrino per l’effetto presente o futuro che questi fenomeni hanno sull’economia; quello contrario è che decisioni su politiche di redistribuzione spettino ai governi su indicazione degli elettori».
Come vede la situazione italiana?
«Sono preoccupato per l’Italia: usciremo dalla pandemia in condizioni peggiori della crisi del 2012. Debito più alto senza che la crescita potenziale si sia alzata».
Lei è un economista che ha visto le ultime tre crisi. Qual è la peggiore?
«La prima è stato un grande shock, in buona parte di nostra creazione per la cattiva regolamentazione delle banche. Quella del debito sovrano in Europa è stata anch’essa di nostra creazione; colpa di governi che per tanti anni non hanno voluto affrontare decisione difficili sulla spesa pubblica. La pandemia è uno shock più esogeno e ci auguriamo che i tempi di ricovero, specialmente con il vaccino, siano più rapidi. La speranza è che, riaperta l’economia, una buona parte della popolazione inizi subito a spendere, avendo messo da parte dei risparmi durante il lockdown. Molti, chiaramente, aspettano di potere andare al ristorante e viaggiare; questo aiuterà tutto a riprendersi. Il timore è che l’economia abbia subito, nonostante l’intervento dei governi, dei danni strutturali, come il fallimento di imprese, che non sarà immediato riparare».
Come ripagheremo il debito?
«Lo spread dei nostri titoli di Stato è al momento contenuto dalla promessa esplicita della Banca Centrale Europea di intervenire in modo quasi illimitato in caso contrario. Questo ha permesso al governo italiano di affrontare la pandemia senza dovere combattere allo stesso tempo un attacco sul debito. Non credo che il pubblico italiano abbia compreso o apprezzato l’entità di questo beneficio. Se a marzo la BCE avesse limitato il supporto ai titoli di stato avremmo avuto tassi altissimi».
Qual è il rischio?
«Espandere il mandato delle banche centrali potrebbe creare risentimento in una parte, potenzialmente vasta, della popolazione che non vede con favore queste nuove politiche sociali e percepisce le banche centrali come lo strumento delle élite».
Questa pandemia ha causato il rallentamento del commercio internazionale, l’emersione della Cina, la crisi economica e politica dell’Europa. Che cosa cambierebbe?
«Il populismo».
Se la sente di commentare il Recovery Fund e il Mes…
«Come molti, ho assistito alle polemiche. Nella crisi del 2011-12 c’è stata una deleteria enfasi sull’austerità. L’austerità imposta al momento sbagliato aggrava solo la crisi. Credo che questo abbia creato un sospetto su qualunque forma di condizionalità imposta a livello europeo».
A pochi giorni dall’insediamento del neo presidente degli Stati Uniti Biden sono stati annunciati cambiamenti importanti a livello internazionale: quali sono le sue previsioni economiche?
«Al momento il debito federale americano è al livello più alto rispetto al PIL in tempo di pace. Il governo ha giustamente espanso il debito per fronteggiare la pandemia. Il problema non è di breve periodo. Quello che preoccupa a lungo andare è l’assenza di un piano di contenimento del debito o, peggio ancora, l’idea che questo non serva. È il modo più sicuro per avere una futura crisi».
Politiche di innovazione: quali sono le differenze con l’America?
«Parlo del sistema universitario, che conosco meglio. La ricerca moderna richiede investimenti molto alti, sia nelle scienze dure che in quelle sociali come l’economia. Investimenti nel personale ma anche in strutture, come laboratori e centri di creazione o acquisizione dei dati. Come finanziarli in una democrazia moderna è un problema a cui vari Paesi hanno dato risposte differenti. Gli Stati Uniti si sono concentrati sul privato e sulle donazioni. Molti Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno una forte componente statale. Credo che entrambi i modelli abbiano punti di forza e che isole di eccellenza siano presenti in molti posti. A livello di sistema, tuttavia, il modello Americano ha avuto più successo. Vedremo nei prossimi decenni se e come emergerà un modello di innovazione e ricerca cinese».
Quali sono i temi di ricerca e politica economica su cui lei si concentra?
«In economia internazionale ho co-fondato il Global Capital Allocation Project con i miei colleghi Brent Neiman, della Chicago University, e Jesse Schreger, della Columbia University. Studiamo come viene allocato il capitale globale, le imperfezioni e i possibili interventi della politica economica. Recentemente ci siamo focalizzati sul ruolo delle valute internazionali come il dollaro, i paradisi fiscali e l’espansione della Cina nei mercati finanziari globali. Mi piacerebbe capire meglio il ruolo che il capitale internazionale ha svolto nella recente pandemia».
Quando li scrive i suoi modelli di ricerca?
«Quando sono confuso su un argomento; per me è un modo per chiarirmi le idee. Ho scritto modelli sulla determinazione dei tassi di cambio e sul funzionamento del sistema monetario internazionale per questo motivo. In entrambi i casi sono modelli molto semplici, ma la speranza è che catturino una parte essenziale della realtà. I modelli hanno successo se gli altri li trovano utili nel formare il proprio pensiero».
La ricerca in economia è diventata negli ultimi anni sempre più empirica…
«Nel campo della macroeconomia e finanza internazionale la svolta è dovuta alla presenza, per la prima volta, di dati su larga scala su chi possiede investimenti intorno al mondo e sulle decisioni di produzione ed esportazione delle imprese. In un mio recente studio abbiamo documentato vasti investimenti europei e americani in Cina ed in altri grandi Paesi emergenti come il Brasile che avvengono attraverso società controllate nelle Isole Cayman o nei Paesi Bassi. Questi investimenti, che nei dati ufficiali risultano difficili da individuare, forniscono una visione diversa dell’esposizione degli investitori ai Paesi emergenti. Una crisi delle compagnie tecnologiche cinesi, per esempio, comporterebbe perdite molto più grandi per gli investitori dell’Eurozona di quelle stimate con i dati ufficiali».