Monte dei Paschi di Siena di nuovo nell’occhio del ciclone. Sembra probabile un altro intervento diretto dello Stato sul patrimonio della banca, e sulla vicenda già si alzano diverse critiche. «Ancora una volta delle scelte politiche privilegiano una minoranza a spese della collettività» dice Massimo Famularo, manager ed esperto di crediti deteriorati. A preoccupare è il dissesto dell’istituto di credito, gravato da un ammontare di quote di NPL (Non Performing Loans) che diventa sempre meno controllabile. Proprio in un anno, il 2021, per il quale il Supervisory Review and Evaluation Process (SREP) della BCE ha posto come priorità assolute delle banche solidità patrimoniale e gestione del rischio di credito. Anche per questo lo Stato è da settimane in caccia di quella che sembra a molti osservatori come la soluzione più praticabile. Ovvero la via della fusione, in questo momento in trattativa con Unicredit.
D’altronde, quello dei crediti deteriorati sembra essere un problema patologico del nostro Paese negli ultimi anni, al di là del singolo caso di MPS. Tanto che a dicembre scorso, il valore dei crediti deteriorati detenuti dalle banche italiane si aggirava intorno alla cifra monstre 349 miliardi di euro. Al lordo delle svalutazioni già contabilizzate.
Qual è la sua opinione sulle fusioni come modo per ridurre l’impatto degli NPL sulle banche italiane?
«Le fusioni realizzate in un’ottica di mercato e di creazione di valore per gli azionisti, specie se coinvolgono istituti presenti in diversi paesi, possono dare un contributo positivo, anche nella gestione dei crediti deteriorati. Un discorso diametralmente opposto è quello concernente i “matrimoni di interesse” organizzati dai governi. Il salvataggio di MPS ha già comportato un costo rilevante per i contribuenti in sede di ricapitalizzazione precauzionale realizzata nel 2017. E assorbirà ulteriori risorse (non meno di 10 miliardi per isolare le cause passive, e forse altri 5 tra aumento di capitale e bonus fiscali) per consentire allo Stato di uscire dall’azionariato della banca».
Quali sono le ragioni dietro le dimensioni e l’incidenza del problema degli NPL sugli istituti di credito del nostro Paese?
«Un certo tasso di deterioramento del credito si può definire fisiologico. Nel tempo varia a seconda della fase del ciclo, con inadempienze e fallimenti che aumentano durante le recessioni, del tessuto economico delle regioni considerate e delle normative sulla crisi d’impresa e gestione delle insolvenze. A questo livello base va aggiunta una componente legata alle politiche commerciali dei singoli istituti di credito, che talvolta espandono troppo le erogazioni nelle fasi di crescita economica. Esistono poi alcuni fattori patologici legati a eventuali ingerenze di carattere politico, che possono indirizzare le politiche di affidamento verso impieghi sub-ottimali.
Talvolta invece si hanno elementi esogeni come crisi finanziarie globali o la recente pandemia. Nel nostro Paese, l’origine del problema è nelle modalità contabili con le quali questi crediti venivano classificati in passato. Approfittando di una discrezionalità più elevata e di un sistema giudiziario più lento rispetto a quello degli altri paesi, le banche italiane tendevano ad aggiornare con un certo ritardo la valutazione netta dei crediti per diluire nel tempo l’impatto sul conto economico. La situazione si è poi drasticamente modificata in seguito alle pressioni delle autorità di vigilanza e ad alcune modifiche nelle normative contabili. Che hanno spinto gli istituti a rappresentare in modo più trasparente il reale valore dei crediti deteriorati, a incrementare il livello degli accantonamenti e cederne una parte sul mercato secondario».
Nell’ambito degli NPL, da un punto di vista macroscopico, incidono di più i prestiti di piccola entità dovuti dalle famiglie o i grossi prestiti alle aziende?
«In termini di saldo contabile i crediti verso le imprese in Italia valgono circa tre quarti del totale. Mentre la quota restante è costituita da famiglie, credito al consumo e altre esposizioni. In termini di numero di esposizioni e controparti le proporzioni sono invertite. Dunque si può dire che in valore i crediti di grandi dimensioni verso imprese costituiscano al quota prevalente. Le esposizioni verso le famiglie e il credito al consumo, pur costituendo una parte minoritaria in valore, sono ovviamente più numerose».
Come operano in concreto le società di recupero crediti?
«Tipicamente queste società operano su mandato dei titolari dei crediti e percepiscono delle commissioni proporzionali all’importo recuperato. Per quanto concerne i crediti di piccolo importo e quelli sprovvisti di alcuna garanzia reale il recupero avviene in prevalenza per via stragiudiziale, mediante call center (phone collection) e reti di esattori (home collection). Solo nel caso di debitori che dispongono di redditi aggredibili è possibili avviare azioni legali di pignoramento presso terzi dei compensi percepiti. I crediti bancari e in generale quelli assistiti da garanzie reali sono gestiti per via giudiziale. Le società di recupero si avvalgono di reti di legali esterni che promuovono i pignoramenti e portano avanti le esecuzioni immobiliari».
Negli ultimi tempi, nel nostro Paese, sì è molto discusso sull’intervento di investitori istituzionali nel mercato dei crediti deteriorati. Per esempio, sono state sollevate delle critiche riguardo all’azione di AMCO, che sembra aver acquistato in più di un’occasione degli NPL a un prezzo superiore al valore di mercato. Lei come vede un intervento statale così diretto in questo contesto?
«Innanzitutto va smentita la narrazione in base alla quale sarebbe necessario un intervento dello Stato per compensare eventuali “fallimenti” del mercato. Sia in Italia sia in Europa esistono numerosi investitori istituzionali disponibili a investire in tutte le tipologie di crediti deteriorati. E i dati a nostra disposizione lo confermano ampiamente. Tra il 2008 e il 2015 lo stock di crediti deteriorati nei bilanci bancari è cresciuto di 4 volte passando da circa 85 a oltre 340 miliardi. Per poi tornare a un livello di circa 125 miliardi alla fine dello scorso anno.
Nel triennio tra il 2017 e il 2019 sono state registrate transazioni sul mercato secondario per oltre 200 miliardi. L’intervento dello Stato a oggi è una scelta politica volta a sussidiare l’intero sistema bancario a spese della collettività. E, in qualche caso, con le operazioni “di sistema” trasferisce risorse dagli istituti più solidi a quelli in difficoltà, distorcendo i meccanismi di mercato. Personalmente condivido l’approccio dell’action plan elaborato dalla Commissione Europea, che si focalizza sullo sviluppo dei mercati secondari e sulla revisione delle normative che regolano l’insolvenza e le crisi di impresa. Ribadendo la necessità di procedere a una liquidazione ordinata degli istituti di credito insolventi come previsto dalla BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive)».