venerdì, 26 Aprile 2024

INVESTIRE NEL BEACHWEAR ECOSOSTENIBILE

DiRedazione

1 Luglio 2021 ,
Sommario

Green is the new black? A quanto pare no, almeno nel beachwear, un mercato italiano che, per quanto si dia da fare nella ricerca di tessuti e nella realizzazione di costumi ecosostenibili non trova corrispondenza da parte degli acquirenti. «La conversione etica della moda, anche per l’intimo mare, richiede investimenti importanti», dicono Clara e Cristiana Musella, di Sun Sisters Beachwear. «Ma non tutte le aziende si sono adeguate a questa nuova forma di produzione, che è molto costosa in tutte le sue singole fasi prima di arrivare in vetrina a un prezzo comunque alto. Tra l’altro c’è pochissima richiesta». Il mercato dei costumi da bagno (come da dati SITA Ricerca) è stato fortemente influenzato dalla pandemia, anche se il calo del fatturato del settore è inferiore a quello complessivo d e l l ’ a b b i g l i a m e n t o . Il trend delle fonti di acquisto registra una diminutio dei negozi multimarca indipendenti, anche sportivi, specialmente nella donna: un fenomeno di lungo periodo con un andamento comune a tutti i comparti dell’abbigliamento. Regge la distribuzione organizzata, intesa come aggregato costituito sia dalle insegne multimarca/department store come ad esempio Cisalfa (il range di fatturato supera i 30 milioni di euro, con un aumento nel 2020 del 18,71% rispetto al 2018), Coin (anche qui bilancio superiore ai 30 milioni di euro, ma diminuito del 5,58% rispetto a due anni fa), Decathlon (archivia un 2020 con ricavi in calo del 6% a quota 11,4 miliardi di euro) sia dai monomarca, come Tezenis, brand del gruppo Calzedonia (stabile sui 2.411 milioni di euro delpare no, almeno nel beachwear, un mercato italiano che, per quanto si dia da fare nella ricerca di tessuti e nella realizzazione di costumi ecosostenibili non trova corrispondenza da parte degli acquirenti. «La conversione etica della moda, anche per l’intimo mare, richiede investimenti importanti», dicono Clara e Cristiana Musella, di Sun Sisters Beachwear. «Ma non tutte le aziende si sono adeguate a questa nuova forma di produzione, che è molto costosa in tutte le sue singole fasi prima di arrivare in vetrina a un prezzo comunque alto. Tra l’altro c’è pochissima richiesta». Il mercato dei costumi da bagno (come da dati SITA Ricerca) è stato fortemente influenzato dalla pandemia, anche se il calo del fatturato del settore è inferiore a quello complessivo d e l l ’ a b b i g l i a m e n t o . Il trend delle fonti di acquisto registra una diminutio dei negozi multimarca indipendenti, anche sportivi, specialmente nella donna: un fenomeno di lungo periodo con un andamento comune a tutti i comparti dell’abbigliamento. Regge la distribuzione organizzata, intesa come aggregato costituito sia dalle insegne multimarca/department store come ad esempio Cisalfa (il range di fatturato supera i 30 milioni di euro, con un aumento nel 2020 del 18,71% rispetto al 2018), Coin (anche qui bilancio superiore ai 30 milioni di euro, ma diminuito del 5,58% rispetto a due anni fa), Decathlon (archivia un 2020 con ricavi in calo del 6% a quota 11,4 miliardi di euro) sia dai monomarca, come Tezenis, brand del gruppo Calzedonia (stabile sui 2.411 milioni di euro del 2019) e Yamamay (interna alla holding Pianoforte ha chiuso l’anno con un calo del 20%). Questi player hanno potuto recuperare vendite anche attraverso l’on line che, come prevedibile, ha subito un vero e proprio boom. In questo quadro qual è l’impatto sul mercato del costume ecosostenibile? Alle spalle di una collezione “verde” di un bikini c’è uno studio approfondito sui materiali al quale segue la necessità di avere macchinari all’avanguardia. «In fase di sviluppo, soprattutto in Campania, sono poche le aziende che hanno deciso di affiancare alle loro collezioni canoniche anche questo tipo di costumi che sono fatti con filati diversi. Anche le modalità di stampa sono più complicate, necessitano di un processo diverso rispetto a quello a cui siamo abituati».

Nel mercato del beachwear ecosostenibile c’è un divario nell’industria tra nord e sud?

«Accade spesso che se al sud un’azienda si cimenta in questo tipo di collezione, alla stessa manca il macchinario e quindi per arrivare al prodotto finito i capi vengono spediti al nord, a Prato per esempio, dove ci sono aziende ultramoderne da questo punto di vista e più attrezzate. Occorrono strutture da milioni di euro, che non sempre un’azienda giovane può permettersi. Tutto questo allunga la catena del lavoro, i tempi e ovviamente aumentano i costi del prodotto finito. Lavorare filati riciclati, biodegradabili, tessuti naturali  non è una cosa semplice. Abbiamo bisogno di una rivalutazione dei processi produttivi; di una maggiore attenzione alle  condizioni di lavoro  del personale e alle  materie prime impiegate. Non si può pensare di poter vendere in Italia, delocalizzandola produzione in Bangladesh o Etiopia per abbassarne i costi. Non si può più acquistare un costume a 15 euro, senza sapere chi lo ha cucito e a quale prezzo».

In generale, quanto pesano, a livello commerciale, le catene e la grande distribuzione?

«Molto. I colossi del fast fashion conquistano sempre più quote di mercato anche nel segmento beachwear e i marchi di lusso continuano a registrare performance positive. Già nel 2019 il comparto aveva registrato un calo del 4% per le vendite nel mercato interno, poi il Covid-19. Il mercato italiano dell’intimo mare cresce all’estero ma soffre in Italia perché, a livello commerciale, le catene e la grande distribuzione dominano: insieme valgono oltre il 75% del totale e il retail specializzato, più legato al Made in Italy, pesa soltanto per il 10% del valore. Il prodotto importato domina perché ha una fascia prezzo medio bassa. Vero è che l’originalità premia il made in Italy: è un certificato che ci permette di guardare al futuro con ottimismo. Nel nostro Paese i controlli sulla qualità del lavoro sono notoriamente più frequenti. Voglio pensare che più che un mercato concorrenziale sia un mercato parallelo».

Eppure chi spende in sostenibilità ci guadagna…

«Si, i dati dicono che tra il 2020 e il 2021 i grandi marchi tradizionali hanno perso circa il 30 per cento del fatturato, mentre quelli dal cuore green hanno guadagnato il sette. Rendere sostenibile la moda oggi è un’opportunità per sopravvivere e una strada che molti brand hanno deciso di percorrere anche per soddisfare la domanda del consumatore. Un’indagine di Trustpilot (piattaforma di recensioni leader in Europa) in collaborazione con London Research riferisce che nello shopping, quattro clienti su cinque (82%) a livello internazionale è influenzato da scelte etiche: il 31% di loro smetterebbe di acquistare un brand privo di standard etici, in Italia la percentuale raggiunge il 92%. Ma alla ricerca non corrispondono i fatti perché mentre ci adoperiamo per allineare i nostri obiettivi all’Agenda 2030 le persone continuano a scegliere i costumi tradizionali. È come se la moda ecosostenibile non esistesse ancora».

La moda mare green parte dall’ECONYL®, che cos’è esattamente?

«Un tessuto di proprietà dell’azienda Aquafil, (vedi box) ricavato da fili di nylon rigenerato  da materiali di scarto come, per esempio, i fluff dei tappeti o le reti da pesca. Secondo le fonti FAO e UNEP sono 8 milioni le tonnellate di rifiuti che finiscono in mare ogni anno e 640mila le tonnellate di reti da pesca abbandonate negli oceani. Ne viene fuori un materiale elastico, morbido, sottile, traspirante e molto versatile. Tra l’altro è resistente anche alle creme e agli solari oltre che al cloro ed è ottimo per chi soffre di allergie, perché abbatte la possibilità di irritazioni cutanee. È un filo nuovo a tutti gli effetti che ha le stesse caratteristiche del nylon. La sua produzione è a basso impatto ambientale e le sostanze chimiche utilizzate durante i vari processi riducono al minimo il peso sull’uomo e sull’ambiente. Aquafil ha investito oltre 25 milioni di dollari per la ricerca e per arrivare a questo prodotto».

Più difficile stampare una fantasia o la tinta unita?

«Cambia poco, il problema è proprio la stampa che, come dicevo, non può essere fatta se non con stampanti ad hoc per questo tipo di filati. Per procedere in questa direzione bisogna immaginare di investire in una serie nuova di attrezzature che consentano la produzione. In generale, sarebbe un passo importante perché lo sviluppo della moda sostenibile può spingeree  contribuire alla nascita di nuove tecnologie e nuovi processi, rafforzando un settore in crescita e generando nuove opportunità dal punto di vista sociale ed economico».

I titoli del beachwear corrono in borsa?

«Le aziende quotate sono per lo più grandi marchi noti a livello internazionale nel settore della moda e del lusso. In quel caso ha una sua logica. Ma quando si tratta di piccole realtà, brand di nicchia o imprese a conduzione familiare il mondo della quotazione non interessa».

Gli italiani, post Covid-19, sono sensibili al tema, preferiscono questo tipo di costumi?

«Bisognerebbe prestare un’attenzione specifica verso la sostenibilità e il basso impatto ambientale, senza tralasciare l’innovazione e la creatività anche attraverso l’acquisto di un costume sarebbe importante, ma devo riconoscere che non c’è richiesta e quindi poco mercato. Tra l’altro alla vista cambia poco tra un capo tradizionale e uno realizzato con tessuti ecosostenibili. Cambia però il prezzo, decisamente più alto nel secondo caso, il che porta ad acquistare il primo».

Però con lo stop a eventi e cerimonie anche la moda si è fermata, ma il mare resta: com’è andato l’anno per il beachwear?

«Le vendite di costumi da bagno in Italia valgono 750 milioni di euro l’anno. Secondo Confindustria Moda, dopo un 2019 di buona crescita, con un fatturato in aumento del 10,2%, nel 2020 il comparto ha sofferto il generale calo dei consumi, chiudendo l’anno con una perdita del 14,9%, l’export è sceso dell’11,4% e il fatturato è stato di 440 milioni di euro. Normalmente il beachwear si inizia a vendere nel periodo di Pasqua, abbiamo subito il rallentamento con il primo lockdown ma le riaperture estive ci hanno permesso di risalire il mercato. Lo stesso è accaduto quest’anno. È il capo che ha patito di meno la pandemia: se il fashion ha sofferto, il beachwear ha tenuto».

Merito dell’e-commerce

«L’intimo mare resta l’articolo più venduto perché è il più accessibile dal punto di vista economico: il suo prezzo è decisamente inferiore agli altri prodotti moda. Quanto all’ecommerce, la possibilità di reso anche della somma spesa ha incentivato molte donne all’acquisto che, sognando aria di vacanze, hanno scelto i loro capi comodamente in poltrona. Ora confidiamo nel rilancio del turismo: è nei luoghi di vacanza che il beachwear si vende di più».