domenica, 3 Novembre 2024

COVID-19 E PSICHE, IL SERVIZIO SANITARIO NON REGGE: «NON SI INVESTE ABBASTANZA IN ASSISTENZA»

La pandemia ha scoperchiato il vaso di Pandora del malessere psicologico della società e il sistema sanitario è riuscito a far fronte alle necessità solo in parte, soprattutto grazie all’adozione del digitale. I dati parlano chiaro. Nell’ultimo anno e mezzo le richieste di aiuto psicologico sono aumentate del 30%, il 14% della popolazione ha iniziato a fare uso di ansiolitici o sonniferi, il 10% di antidepressivi e il 19% di chi già li assumeva ha incrementato il dosaggio. I disturbi di ansia clinicamente significativi sono aumentati del 21% e si stima che almeno il 10% della popolazione abbia avuto un attacco di panico pur senza averlo mai sperimentato prima. Sintomi da disturbo da stress post-traumatico hanno interessato il 20% della popolazione e il 28% ha lamentato sintomi ossessivo-compulsivi. Più della metà della popolazione (il 55%) ha sofferto di insonnia. Bambini e adolescenti hanno avvertito un disagio ancora più marcato, tra didattica a distanza e isolamento. Il 70% di loro ha dichiarato una sensibile diminuzione della concentrazione nello studio.  

«Le strutture e gli enti pubblici non possono fornire un supporto continuativo e costante perché non hanno i soldi. È il problema principale, non c’è investimento per la sanità in generale e ancora meno per la sanità mentale. Pochissimi reparti di pediatria hanno uno psicologo, le figure si trovano soprattutto nelle neuropsichiatrie. Ma in altri ambiti non sono praticamente mai sovvenzionati dal sistema sanitario. Tanti psicologi lavorano in strutture pubbliche ma stipendiati da associazioni esterne», dice Linda Bergamini, psicologa psicoterapeuta specializzata in psicologia del lavoro, psicologia scolastica, psicologia in ambito ospedaliero e neuropsicologia.

La Francia ha offerto 10 sedute di psicoterapia a tutti i suoi giovani. Da noi gli psicologi spesso non sono nemmeno pagati dal sistema sanitario. Perché pur esistendo una cultura attorno alla fragilità psicologica, avviene questo?

«Perché si è proseguito a togliere fondi nella sanità ed è una situazione vergognosa. Molto spesso nel pubblico non ci sono soldi per assumere medici che operano salvando vite, in un contesto così l’attenzione a un problema come i disturbi d’ansia è visto come minore. Se non si cura quello che è visibile figuriamoci quello che è invisibile. Nessuno pretende che il sistema sanitario faccia fronte alle spese per percorsi di psicoterapia a lungo termine, ma i supporti psicologici privati sono economicamente proibitivi per molte persone. Durante l’emergenza diversi di noi hanno fornito servizi di ascolto psicologico gratuiti».

E per quanto riguarda la frammentarietà regionale del sistema sanitario?

«Lo squilibrio nelle gestioni sanitarie tra regioni crea enorme difficoltà, specialmente etiche. Per esempio le cure su tutte le patologie croniche a livello pediatrico sono profondamente diverse da regione a regione. Questo fa sì che ci siano grosse “migrazioni sanitarie”, famiglie costrette a recarsi dove sanno che la patologia cronica del famigliare o del figlio sarà curata meglio. È un sistema da ricostruire, ma io spero che l’emergenza possa averci dato degli input in più per riuscirci. Credo sempre che le persone possano imparare dalle esperienze e qualcosa deve cambiare altrimenti saremo votati all’autodistruzione. Mi auguro che il soldo non giochi a sfavore: molto spesso le logiche economiche non sono le logiche umane».

La digitalizzazione nel settore del supporto psicologico ha creato delle risorse che rimarranno anche in futuro?

«Credo proprio di sì. Molti psicologi prima non facevano mai colloqui online. Ora lo strumento è stato sdoganato e un’alternanza permette di raggiungere persone in ogni circostanza. Per esempio utenti che vanno all’estero, come i ragazzi che fanno percorsi di studio lunghi mesi lontano da casa. Ce ne siamo accorti fin dal primo periodo dell’emergenza. Quando molti degli ambulatori di patologia pediatrica sono stati chiusi, ci siamo tutti dirottati sui contatti da remoto ed è stato un bene, se non fosse successo ci sarebbe stato un vuoto. Le terapie a distanza che abbiamo potuto sperimentare hanno funzionato ottimamente. Il supporto in remoto va visto dunque come uno strumento in più».

La riapertura che si intravede con il proseguire della campagna vaccinale sta attenuando i disturbi d’ansia e le richieste di supporto?

«No, è esattamente il contrario. Noi stiamo ricevendo molte più richieste di aiuto ora che si scorge una visibilità di ripresa della vita normale rispetto al periodo in cui la pandemia bloccava tutto. È stato un crescendo. Soprattutto per i ragazzi l’idea di riprendere la vita sociale a tutti i livelli aumenta la fatica e la difficoltà, perché le competenze sociali sono abilità che vanno allenate e costruite. Si devono confrontare ancora con l’incertezza e l’impossibilità di pianificare. C’è poi un ulteriore tema che riguarda la salute mentale, nell’immediato più degli adulti e i giovani adulti: quello di ripensare il lavoro. Lo smartworking che abbiamo sperimentato, senza orari, senza limiti e senza norme somiglia più a una prigione e l’evoluzione del futuro sul tema ad oggi è molto incerta».