venerdì, 26 Aprile 2024

RIFORMA GIUSTIZIA, IL PROF. FABIANI: «VALE UN INCREMENTO DI PIL MA SOLO CON UNA SERIA RIORGANIZZAZIONE»

Sommario

Il PNRR dà una scossa alla giustizia. In Senato sono stati approvati i disegni di legge delega per una riforma della giustizia, che preveda una modifica dei processi civile e penale – la cosiddetta riforma Cartabia – che mira tra le altre cose a un efficientamento dei procedimenti giudiziari, ma queste misure non sono che parte di un disegno più ampio. «Quello che davvero dobbiamo ribaltare è l’aspetto organizzativo: serve una maggiore specializzazione dei giudici e un’integrazione dei tribunali», dice il professor Massimo Fabiani, avvocato cassazionista  e docente di Diritto commerciale all’università degli Studi del Molise. «Solo così una riforma può avere un impatto reale, anche economicamente, sul Paese».

Quale potrebbe essere l’impatto economico di una riforma della giustizia?

«Secondo le stime più recenti, una riforma della giustizia come immaginata nel PNRR dovrebbe portare a un incremento del PIL dello 0,5%. Ora, questa cifra si riferisce a un’azione ad ampio raggio, dunque non su singole voci, ma su un insieme di fattori concomitanti: una riforma del processo civile, una delle procedure concorsuali ed esecutive, in minima parte una del processo penale e soprattutto riforme organizzative. In campo economico. La direttiva principale è quella di ridurre l’arretrato e, quindi, sia il numero sia le tempistiche di risoluzione delle liti, del 40% in cinque anni. Questo significa un’abbreviazione dei termini del complessivo iter giudiziario, delle procedure concorsuali e, non da ultimo, delle procedure esecutive, per le quali l’obbiettivo è a due anni. Quest’ultima parte ha particolare importanza per il settore del recupero dei crediti: oggi mediamente le procedure durano quattro anni, con grande danno degli operatori».

Quali sono i fattori che determinano prestazioni tanto negative?

«Quella che le citavo è una media. In realtà a livello nazionale si registrano anche performance di tempo migliori e peggiori, delle variabili estreme che determinano un forte disallineamento generale. Queste non sono però interpretabili sulla base della dislocazione geografica, perché ci sono uffici giudiziari di realtà molto periferiche che funzionano meglio di uffici situati in contesti economici più vivaci e importanti. Le faccio un esempio, tratto da una indagine di alcuni anni fa, uno dei tribunali più performanti in assoluto su cause e pendenze era quello di Marsala, a fronte di tribunali del Nord-Est, come Treviso, che registrano performance inferiori alle attese. Questo dipende da cause molto diverse, ma esistono dei dati comuni: innanzitutto, le scarse capacità organizzative dei responsabili locali, e in secondo luogo la presenza di piante organiche e assetti burocratici troppo rigidi. Tornando a Treviso, siamo in presenza di un tessuto economico molto consistente, ma un numero di abitanti in proporzione ridotto. Ebbene, il numero di liti dipende in massima parte da quello delle imprese, mentre i giudici sono assegnati sulla base della popolazione. Una riforma non può non tener conto di questo tipo di problemi organizzativi, anche territoriali».

E in che modo una riforma della giustizia globale può influire su questi aspetti locali?

«Il governo ad agosto ha varato l’assunzione di 8000 nuovi addetti all’ufficio del processo, una realtà in costituzione per agevolare il lavoro dei magistrati. Saranno soprattutto neolaureati che si sobbarcheranno buona parte del lavoro di ricerca e classificazione, oggi interamente sulle spalle del giudice».

Un numero così grande di assunzioni non inciderà sulla qualità e la formazione del capitale umano?

«Questo è un problema importante, che va senz’altro chiarito: molti ritengono che un modo valido per ridurre l’arretrato e abbreviare i tempi sia assumere più giudici: questa tesi ha un difetto di fondo, perché il nostro sistema di formazione non è in grado di sfornare un numero sufficiente di laureati eleggibili per il concorso in magistratura. In poche parole, i posti messi a bando non sono mai stati coperti negli ultimi anni. Sapendo questo, gli aumenti di organico, come in questo caso, non possono andare a coprire vuoti negli incarichi giurisdizionali, ma devono coprire funzioni di complemento al lavoro del giudice, almeno per ora. La speranza è, più avanti, di riuscire a migliorare le competenze di questi nuovi assunti attraverso una formazione specifica, in modo tale che possano in futuro ricoprire ruoli di maggiore rilievo decisionale. Importante sarà ancora una volta l’assetto organizzativo, che dovrà essere modulato per far sì che queste nuove forze siano valorizzate e impiegate al meglio.».

Quanto invece alle stesse procedure, non ci sono provvedimenti da prendere per aumentarne l’efficienza?

«Nel disegno di legge citato prima ci sono delle disposizioni volte a favorire delle accelerazioni nei tempi del processo. Ma, in primo luogo si tratta di una legge delega, per cui bisognerà attendere i decreti delegati per capirne le reali implicazioni. In secondo luogo, l’esperienza ci insegna che le riforme sulle regole processuali hanno sempre un carattere relativo, molto più importanti sono quelle organizzative».

Nei testi approvati il 21 e 23 settembre dal Senato, sulla riforma della giustizia penale e civile, non si parla molto di provvedimenti organizzativi. Stiamo andando nella direzione giusta?

«Bisogna colpire assieme più criticità: le modifiche al Codice di procedura civile contenute nel progetto approvato in Senato hanno delle caratteristiche di semplificazione e di incentivazione alla regolazione extragiudiziale delle liti, che occupa una parte importante del disegno. Si tratta di regole in parte processuali, ma che hanno ricadute organizzative importanti, perché tendono a diminuire le pendenze. In più, esiste la disposizione di cui parlavo, che stanzia molte risorse per le nuove assunzioni. Se questo ufficio del processo dovesse funzionare l’impatto potrebbe essere molto rilevante. Proprio su questo è stato assegnato alle università il compito di predisporre dei progetti che riguardino modelli organizzativi, mettendo insieme giuristi, aziendalisti e informatici. In quello di cui faccio parte, si parla ad esempio dell’introduzione di forme di intelligenza artificiale, sia a livello organizzativo sia a livello decisionale. Insomma, partiamo da una soluzione complicata, ma di certo non siamo fermi. Il processo telematico italiano è molto avanzato rispetto ad altri Paesi europei. Si aprono al legislatore diverse innovazioni tecnologiche di grande impatto da esplorare».

Riguardo alle innovazioni tecnologiche, come potrebbero essere impiegate le intelligenze artificiali nel contesto giudiziario?

«Un primo impiego è sul piano organizzativo: ad esempio nella selezione dei contenziosi, l’assegnazione delle cause, l’individuazione di cause seriali e la pianificazione delle udienze. Questo primo aspetto potrebbe essere anche implementato in tempi relativamente brevi. Il secondo invece, più problematico, è quello dell’utilizzazione nel processo decisionale, per esempio nell’elaborazione e la valutazione di dati e prove, nell’ottica di un aiuto al giudice. Ma questo, le ripeto, è un tema molto delicato, perché bisogna capire quanto si tratterebbe di un supporto e quanto invece di una sostituzione, che sarebbe inaccettabile nel nostro ordinamento. In generale, però, il canale comunicativo è aperto, si tratta di innovazioni importanti a cui il mondo giuridico non può restare insensibile».                                                                                            ©

Marco Battistone

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Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".