venerdì, 29 Marzo 2024

RISORSE PER LA SANITÀ: LA BUROCRAZIA FERMA IL 67% DEI FONDI

I tempi della burocrazia bloccano la sanità. Il 67% delle risorse stanziate nel 2020 per il recupero delle prestazioni, a giugno di quest’anno non erano ancora state spese dalle Regioni. L’accantonamento delle risorse è del 96% nel Meridione e nelle Isole, il 54% al Nord e il 45% al Centro. «Questo è uno dei problemi che affligge il nostro Paese in tutti gli ambiti», dice Giordano Beretta, presidente nazionale dell’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e responsabile oncologia medica all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. «Un eccesso di burocrazia e la paura di poter essere accusati di uso scorretto delle risorse porta spesso a non prendere decisioni, perdendo così l’opportunità di poter utilizzare quanto disponibile». Per recuperare bisogna investire, ma l’Italia è fanalino di coda in Europa sulla spesa sanitaria, destinando solo l’8,7% del suo Pil (la media europea è al 9,9%)».

Basteranno le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza a risollevare il settore?

«La percentuale è addirittura inferiore dell’8,7% se escludiamo la quota out of pocket, attestandosi sotto al 7%. La speranza è che, al di là di quanto potrà essere reperito con il PNRR, in futuro il finanziamento per la salute venga incrementato, considerando la spesa sanitaria non un costo ma un investimento, dal momento che più soggetti sani possono contribuire anche all’incremento del Pil».

Quanto costa la sanità italiana a ogni cittadino? In futuro, sarà necessario aumentare le tasse per soddisfare le necessità sanitarie degli italiani?

«Il Sistema Sanitario Nazionale italiano è probabilmente uno dei migliori, se non il migliore al mondo. Il suo costo è inferiore a quanto speso dai sistemi assicurativi in altri Stati. Un corretto impiego delle risorse e una politica basata sulla prevenzione dovrebbe consentire una stabilità al sistema. Se poi si riuscisse a risolvere il problema dell’evasione, che lo è anche sui fondi per la salute, non ci sarebbe bisogno di alcuna richiesta aggiuntiva».

In era pre Covid-19 c’erano 8,6 posti letto in terapia intensiva ogni 100mila abitanti. Con la pandemia sono stati aumentati a 14. Numeri bassi rispetto ad altri Stati (Germania: 33 ogni 100mila abitanti per esempio). Quanto bisognerà investire nei prossimi anni?

«I posti letto di terapia intensiva sono sicuramente tra i più necessari. C’è, peraltro, da dire che pur con molti più letti le ondate di febbraio-aprile 2020 nelle zone più colpite della Lombardia sarebbero stati insufficienti persino con i numeri tedeschi. Ciò non toglie, però, la necessità di incrementare ancora le degenze intensive. Ma per fare questo occorre poi disporre anche di personale addestrato e l’attuale situazione della disponibilità di professionisti non è problema facilmente risolvibile in tempi brevi».

In Italia i posti letto in degenza ordinaria nel 2019 erano 187.010. Ancora oggi non abbiamo recuperato molto rispetto al resto d’Europa. In che modo si può agire?

«I posti letto di degenza ordinaria sono il risultato di diversi anni in cui la politica ha indicato la necessità di ridurre l’ospedalizzazione dei pazienti. Ciò può avere delle basi teoriche corrette ma solo se le strutture territoriali vengono implementate per ridurre la necessità di ricovero e se, parallelamente, si attuano politiche di prevenzione che riducono il rischio di ammalarsi».

Nel 2020 si è ridotta dell’80% l’attività chirurgica elettiva e fino al 35% quella d’urgenza: tra questi molti interventi chirurgici per tumore. Qual è il quadro attuale?

«L’attività chirurgica, compreso quella oncologica ha subito importanti rallentamenti nella fase di lockdown stetto di marzo-maggio 2020. Ciò era legato all’impiego di molte sale operatorie come strutture di rianimazione, all’indisponibilità di anestesisti impegnati con i problemi dei pazienti in terapia intensiva. Dal mese di giugno 2020 c’è stata una lenta ripresa dell’attività che, ormai, si sta normalizzando pressoché dappertutto. Rimangono però ancora da recuperare i precedenti ritardi, soprattutto per gli interventi non urgenti che, correttamente, sono stati messi in coda a quelli per esempio di pertinenza oncologica. Ci vorrà parecchio tempo per recuperare l’arretrato».

Quanto si sta investendo nella formazione e gestione delle risorse umane?

«Quello delle risorse umane non è solo un problema di fondi. La carenza di personale nasce da una realtà universitaria in cui i numeri chiusi andrebbero, se non aboliti, per lo meno revisionati. E questo vale sia per l’accesso alle Università sia per l’accesso alle specializzazioni. Per formare un medico occorrono però da 6 (senza specialità) a 10-11 anni (con specialità) e, quindi, sarà un problema di lunga durata. Anche per il personale infermieristico sono necessari al minimo 3-5 anni».

Quante risorse servirebbero per rilanciare gli ospedali italiani in tema di ammodernamento?

«Non so darle una risposta quantitativa. È chiaro che si dovrà passare da una politica di risparmio sulla spesa a una politica di investimento sulla salute. E, se usati con oculatezza, i soldi spesi potrebbero rientrare per i positivi risultati di salute che si possono ottenere».

Nel post pandemia che ruolo avrà la telemedicina?

«La telemedicina è uno strumento che stiamo imparando a usare. Non può sostituire l’attività in presenza ma può affiancarsi a essa riducendo la necessità di spostamento dei pazienti. Richiede però la possibilità di una reale collaborazione tra strutture ospedaliere e territoriali, che può comunque essere facilitata dal mezzo informatico». ©

LinkedIn: Mario Catalano

Twitter: MarioCatalano2