Le imprese italiane sono sotto pressione. La crisi dovuta alla pandemia evidenzia spesso situazioni di disagio legate a mancanze organizzative e culturali. Quello che manca, in un settore spesso campanilistico e ad assetto familiare come quello italiano, «è l’idea di new blood, di forze fresche provenienti dall’esterno e capaci di imprimere all’impresa una spinta di cambiamento», sottolineano Alberto Tron, commercialista e revisore legale esperto di crisi d’impresa, e Luca Francesco Franceschi, commercialista e revisore legale e docente Università Cattolica del Sacro Cuore, insieme autori di La finanza aziendale nella crisi reversibile d’impresa. «Purtroppo, spesso la mancanza di una vera separazione tra capitale e lavoro, shareholders ed esecutivo, cristallizza i vertici dell’aziende impedendo tali cambi di paradigma». Eppure proprio il cambio di leadership è uno degli ingredienti fondamentali che contribuiscono a rendere i cosiddetti Chapter 11, i celebri processi fallimentari americani, un modello di efficienza cui guardano e aspirano tutti gli operatori del settore.
Cos’è la crisi reversibile d’impresa e che cosa la distingue da una crisi irreversibile?
«Si tratta di un tema di grande rilievo. Nel libro viene evidenziato come ogni crisi aziendale, le cui origini sono prevalentemente legate ad una non corretta gestione strategica e operativa, si manifesta, in ultima analisi, attraverso uno squilibrio economico-finanziario che talvolta si protrae nel tempo fino a divenire insanabile ma che spesso è possibile ripristinare, “recuperando” una condizione di equilibrio stabile (turnaround). Il presupposto di partenza è che nessuna crisi sia intrinsecamente irrecuperabile, perché il problema non è tanto quello dell’esistenza di una sua soluzione quanto, piuttosto, quello della convenienza economica e della disponibilità degli attori del risanamento a fornire i mezzi necessari per la riuscita dell’operazione di recupero delle condizioni di equilibrio. Una crisi aziendale diventa irreversibile quando questi presupposti non si realizzano o quando non è possibile trovare una soluzione all’insolvenza prospettica che l’azienda palesa».
Quali sono le figure professionali di cui si ha maggiormente bisogno nell’ambito della gestione di una crisi?
«È fondamentale che ci possa essere un cambio nella corporate governance mediante l’introduzione di manager indipendenti, organi di controllo adeguati e un action e un deployment plan ben descritti e temporizzati che consentano di monitorare costantemente l’andamento aziendale e l’efficacia delle misure adottate per risolvere la crisi. Anche la figura del CRO (Chief Restructuring Officer), di norma professionista esterno, sta divenendo sempre più determinante per il monitoraggio costante dell’andamento del piano di risanamento e per la sua eventuale modifica. Il CRO potrebbe peraltro costituire una figura professionale non solo funzionale quando la crisi si è ormai manifestata, ma anche in tutte quelle circostanze in cui l’impresa deve affrontare cambiamenti riorganizzativi significativi per adeguarsi a profondi mutamenti nel business model. Ciò agevolerebbe la formazione di una cultura utile a gestire i momenti di ristrutturazione del business».
In che modo l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza cambierà il modo in cui viene gestita?
«Finora si è manifestata una straordinaria inconcludenza, nonostante un impressionante numero di riforme negli ultimi quindici anni. È ancora l’imprenditore che ha generato la crisi ad avere la regia del risanamento, dalla scelta dei consulenti ai rapporti con i creditori. Come è stato correttamente affermato da autorevole dottrina, bisogna distinguere lo sviluppo dalla gestione della crisi: sono necessarie competenze e caratteri completamente diversi che l’imprenditore non ha certamente compresenti. Ricorrere a un gestore professionale della crisi, comune nella prassi anglosassone, sarebbe più efficace ed efficiente e sembra che il DL 118/2021 stia muovendo i primi, pallidi, tentativi in questo senso. Altra (tanta) strada resta da percorrere».
E il mercato NPL e le sue evoluzioni?
«Sicuramente il mondo del credito deteriorato avrà un ruolo significativo nei prossimi anni ma resta sicuramente difficile poterne stimare gli effetti. Al riguardo si rammenta che, secondo quanto recentemente evidenziato dal Market Watch NPL di Banca Ifis, in Italia a fine anno 2021 l’ammontare complessivo dei crediti deteriorati raggiungerà il valore di 345 miliardi di euro, di cui 80 miliardi di euro di UTP (unlikely to pay). Di certo, la circostanza condurrà a relazioni più strette tra imprenditori, imprese e intermediari finanziari i cui esiti potranno essere apprezzati solo nel medio termine. Una delle finalità del citato DL 118/2021 dovrebbe essere quella di agevolare tale rapporto».
Qual è la condizione delle aziende italiane ora che, dopo la fase più acuta della crisi, ci si affaccia verso nuovi scenari?
«I parametri economici sembrano volgere verso prospettive di crescita ma ciò non toglie che dobbiamo constatare che le dimensioni delle aziende italiane continuano ad essere – da troppo tempo – straordinariamente limitate e pure in declino. Le grandi imprese danno lavoro a poco più del 20% degli occupati mentre in Germania a più del 50% e in Francia a poco meno. Bisogna crescere, prevalentemente attraverso fusioni e acquisizioni, per fare presto. La manifestazione più perniciosa dell’attuale disagio aziendale è l’illiquidità e in ogni caso l’impresa di minori dimensioni non ha nel concreto alternative al capitale proprio e all’indebitamento bancario, difficili da reperire soprattutto in questo periodo. Questo dimostra quanto sia rilevantissimo il cash management e la gestione dal capitale circolante su cui ogni realtà, in crisi o meno, deve concentrare i propri sforzi».
Come devono comportarsi imprenditori e soci delle piccole e medie imprese, le più colpite dagli avvenimenti dell’ultimo anno e mezzo?
«Dovrebbero affidarsi a professionisti esperti (possibilmente in una logica di assistenza “integrata” della gestione della crisi sia sotto il profilo legale, aziendale e gestionale che consenta efficacia ed efficienza d’intervento) che possano, in primo luogo, creare le condizioni di prevenire, che è molto meglio che curare. Questo significa che bisogna favorire la crescita dimensionale delle imprese medio piccole per renderle meno permeabili ai germi della crisi. Per i processi di riorganizzazione e ristrutturazione servono soluzioni che impediscano a chi ha prodotto la crisi di gestirne gli effetti e organizzarne l’uscita. Un’azione sui tempi è la condizione necessaria per incrementare le probabilità di successo». ©
Marco Battistone
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