La lotta allo spreco comincia dall’armadio. A livello globale ogni anno vengono gettati via 460 miliardi di dollari di vestiti che si potrebbero continuare a indossare. E meno dell’1% del materiale utilizzato per produrre abbigliamento viene riciclato, per una perdita stimata di circa 100 miliardi di dollari ogni anno, secondo i dati della Ellen McArthur Foundation. Se l’industria della moda affrontasse le problematiche ambientali e sociali dell’attuale sistema di produzione entro il 2030 (rapporto Pulse of the Fashion Industry) il beneficio complessivo per l’economia mondiale potrebbe essere di circa 160 miliardi di euro.
«Se parliamo di sostenibilità all’interno dei grandi gruppi non si sta ancora facendo abbastanza, né da un punto di vista sociale, né da quello ambientale», dice Orsola de Castro, co-fondatrice del movimento Fashion Revolution. «Molti investimenti sono stati fatti sul linguaggio, ma sappiamo che spesso si tratta di greenwashing. I veri investimenti servono per la supply chain e per il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente. Se invece ci riferiamo a realtà più piccole ed emergenti, studenti e cittadini, allora abbiamo fatto grandissimi passi in avanti. Non solo c’è molta più richiesta di capi sostenibili, ma i giovani esordienti e chiunque entra nel mondo della moda ora prende in considerazione più di prima la sostenibilità e l’etica».
Nel settore si parla sempre di più di trasparenza, ma questo poi spinge nel concreto a ripensare la filiera?
«Come Fashion Revolution abbiamo sviluppato il Transparency Index, che è sia uno degli strumenti più utilizzati dai brand per comunicare fino a dove arrivano con la loro trasparenza, sia uno strumento per i cittadini che possono iniziare a capire che cosa vuol dire e come viene calcolata. Il valore della trasparenza però è quello di rappresentare il primo passo, anche perché le informazioni sono fornite dai brand stessi. Al momento non esiste un corpo globale che li analizzi. Le informazioni sono importantissime, ma servono principalmente per far sì che altri possano assicurarsi che i brand si responsabilizzino. La trasparenza non porta necessariamente all’etica, alla sostenibilità, o alle best practice. Ma a far sì che si sia in grado di portare avanti uno scrutinio sulle informazioni fornite».
Riciclo e upcycling, che si pongono come soluzione allo spreco di vestiario, al momento vengono visti come una responsabilità del consumatore. Possono diventare anche parte della filiera produttiva?
«Prima di tutto dobbiamo riflettere sul fatto che siamo diventati l’unica società della storia in cui il consumatore non ha responsabilità del proprio spreco. Fino a non molto tempo fa lo spreco invece era visibile, perché si sapeva dove gli scarti andavano a finire. In quanto consumatori dobbiamo iniziare a considerarci parte della filiera. Nel minuto in cui compriamo qualcosa abbiamo la responsabilità di prendercene cura e di garantire che il capo abbia una fine sostenibile. Ma anche i brand e i governi devono attuare sistemi che ci permettano di comportarci in maniera etica. Per esempio fornendoci tutte le informazioni sul capo che ci permettono di capire come lavarlo e mantenerlo il più a lungo possibile».
Per esempio?
«Pensiamo al fatto che non esiste un obbligo per i brand di comunicare se i capi contengono prodotti inquinanti: noi possiamo occuparci di riciclare e fare e upcycling, ma staremmo inconsapevolmente tenendo in circolazione un prodotto molto inquinante. Non esiste comunque al momento un riciclo non invasivo che permetta di ritornare alle fibre di partenza. Sono stati fatti molti investimenti per la ricerca in questo campo, ma si tratta ancora di processi fortemente invasivi dal punto di vista chimico».
E l’upcycling?
«È una tecnica antichissima, che si basa sul buon senso del riutilizzo, e che una volta faceva anche parte del processo industriale. L’upcycling all’interno delle grandi fabbriche potrebbe portare un grande sollievo in termini di rifiuti e di spreco, che hanno volumi giganteschi. Però implementarlo significa operare una ristrutturazione della produzione e fare formazione ai dipendenti, perché servono reparti che si occupino di decostruire al posto di produrre. Le disassembly line aiuterebbero così a recuperare sia i ritagli sia i tessuti e farebbero sviluppare abilità importantissime ai lavoratori della filiera. Al momento nelle fabbriche dei grandi marchi queste non esistono, perché
rallenterebbero il sistema di produzione».
E le piccole e medie realtà?
«Ce ne sono che ne implementano, hanno un impatto sia a livello locale sia da un punto di vista creativo, ma l’impatto più grande deriverebbe dall’upcycling industriale nelle fabbriche dei grandi marchi. È da lì che deve partire l’innovazione. L’industria della moda, rispetto ad altre industrie (penso per esempio a quella automobilistica) negli
anni non è stata altrettanto capace di innovarsi per creare sistemi più verticali ed efficienti».
Le tonnellate di indumenti che finiscono in discarica oltre che a un’enorme minaccia per l’ambiente rappresentano anche uno spreco a livello economico…
«Sì, c’è un’enorme perdita economica ma anche culturale: tutte le abilità nel recuperare, rammendare, riadattare o scambiare, che una volta erano molto diffuse, si stanno perdendo. Quello del riutilizzo è un mondo enormemente creativo che rischia di andare perso».
Si parla sempre più spesso di moda etica, ma non basta dichiararsi un brand etico per esserlo. Quali dovrebbero essere i requisiti da rispettare per potersi definire tale?
«È impossibile generalizzare così tanto: parlare di moda etica o moda sostenibile non vuol dire niente. Bisognerebbe ribaltare il concetto e andare a vedere i singoli criteri che rendono il brand non etico e non sostenibile ed è lì che si scopre che riguardano la maggioranza dei brand. D’altra parte invece dovremmo apprezzare quei marchi che davvero fanno lo sforzo in questa direzione e non forzare su di loro una generalizzazione impossibile. Bisogna valutare come la sostenibilità si declina per loro, dandogli tutta l’accuratezza necessaria: se produci aiutando lo sviluppo di una piccola comunità sei sostenibile per questo motivo, oppure lo sei perché produci utilizzando tessuti di scarto. Guardiamo qual è il criterio e se quello funziona va bene così».
Esistono quindi piccole realtà che lavorano bene in questa direzione?
«Assolutamente sì. Ma siamo troppo abituati al concetto di ingigantire al posto del concetto di replicare. C’è un importante ritorno a una moda più piccola, più comunitaria, più artigianale; le piccole realtà si stanno spingendo molto avanti e si stanno muovendo davvero bene. Dobbiamo quindi guardare a questi piccoli brand e cercare in tutti i modi possibili di fare spazio per loro».
Il consumatore come può supportare questo cambiamento?
«Dipende moltissimo dalle situazioni finanziarie dei singoli: io credo che debba esistere un prodotto a basso prezzo interamente sostenibile, per questo sono i grandi brand con prezzi accessibili ad avere la responsabilità di diventare sostenibili. Però è molto importante anche il tempo: chi non si può permettere di supportarli economicamente può iniziare a capire chi sono, come lavorano, informarsi e poi magari acquistare da loro più in là. Serve che ognuno faccia un esame di coscienza: i vestiti che indossiamo hanno un impatto sulle persone che li producono e sull’ambiente. Una volta che ci si riflette è più facile connettersi con chi sta trovando soluzioni, ma non ne esiste una valida per tutto, proprio come non esiste un solo look che sta bene a tutti».