giovedì, 25 Aprile 2024

Blue economy: 4,5 mln di occupati nella sola Ue, ma c’è un rischio

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L’accelerazione blu mette a repentaglio la salute dei nostri oceani. Negli ultimi vent’anni l’ocean industry è cresciuta in modo esponenziale. «Nel 2016 l’Ocse ha previsto che sarebbe aumentata più velocemente fino al 2030 rispetto a quella globale, ovviamente prima della pandemia», dice John Virdin, direttore dell’Ocean and Coastal Policy Program del Duke Nicholas Institute for Environmental Policy Solution. «Quindi c’è stato molto interesse da parte di governi e aziende verso questo settore, ma allo stesso tempo è stata espressa molta preoccupazione per le comunità costiere, come quelle dei pescatori su piccola scala. C’è il timore che possano essere schiacciati dall’ocean grabbing». Nel periodo pre pandemia la blue economy impiegava almeno 4,5 milioni di persone nella sola Europa. Il settore ha generato 650 miliardi di euro di fatturato e 176 miliardi di euro di valore aggiunto lordo, con un utile lordo di 68 miliardi di euro. In Italia, trainata dal turismo costiero, il comparto dava lavoro a oltre 390mila persone e ha generato 19,7 miliardi di euro di valore aggiunto al Pil nazionale. Ma, accanto agli aspetti positivi sul fronte occupazionale, bisogna sempre tenere alta l’attenzione sull’inquinamento degli oceani.

L’UE aspira a ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 e a conseguire la neutralità climatica entro il 2050. Le energie rinnovabili offshore potrebbero contribuire a raggiungere questi obiettivi e generare un quarto dell’energia elettrica dell’UE nel 2050, principalmente (ma non solo) attraverso l’energia eolica offshore. Cosa ne pensa?

«Nei prossimi decenni è prevista una crescita esponenziale dell’energia eolica offshore. Ovviamente dobbiamo anche comprendere l’impatto di queste attività e strutture sull’ambiente oceanico e non solo, come la biodiversità».

In che modo possiamo combattere il fenomeno dell’inquinamento dei mari e dei cambiamenti climatici?

«Non c’è una risposta semplice, ma consapevolezza che gli impatti dei cambiamenti climatici sull’oceano sono in aumento, così come l’inquinamento. In quest’ultima CoP a Glasgow, si è parlato molto su come l’oceano sia da un lato vittima dall’altro soluzione al cambiamento climatico. Gli attuali e futuri attori dell’economia oceanica devono comprendere i rischi significativi derivanti dagli impatti umani sugli spazi oceanici e sugli ecosistemi condivisi e che questi spesso non sono isolati per utenti o industrie specifiche, ma condivisi con il mondo».

Ogni anno circa 27.000 tonnellate di macroplastiche finiscono nei mari. In che modo possiamo combattere questo tipo di inquinamento?

«Sono stati fatti molti sforzi per cambiare il modo in cui produciamo, consumiamo e smaltiamo la plastica, in particolare quella monouso. C’è qualche preoccupazione che tutto ciò si sia fermato o rallentato a causa della pandemia, ma c’è anche ottimismo sull’avvio di nuovi negoziati per un trattato globale con lo scopo di combattere l’inquinamento da plastica. Grazie alle innovazioni tecnologiche, le leggi nazionali e locali sono stati fatti passi avanti. Infine, bisogna aumentare l’educazione dei consumatori. Tutto sarà necessario».

Come sottolineato nella strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030, l’estensione della protezione al 30% della superficie marina dell’UE e la creazione di corridoi ecologici permetteranno di invertire la perdita di biodiversità e contribuiranno alla mitigazione dei cambiamenti climatici e alla resilienza, generando nel contempo notevoli benefici finanziari e sociali. Come sostenere le aree protette?

«Esistono numerose tecnologie utilizzate per supportare la sorveglianza e l’applicazione delle aree protette e gli scienziati hanno esaminato ciò che contribuisce a renderle efficaci. Allo stesso tempo, ci sono reali preoccupazioni in alcuni casi che le comunità di pescatori perdano l’accesso a spazi e risorse. Bisogna sempre garantire che la pesca su piccola scala e gli utenti tradizionali siano coinvolti e non danneggiati».

Circa il 70% dei maggiori depositi di idrocarburi scoperti fra il 2000 e il 2010 si trova nei fondali marini e con il progressivo esaurimento di giacimenti nelle acque meno profonde la produzione si sta spostando a maggiori profondità. È preoccupato?

«Sì, questo fa parte dell’”accelerazione blu” a cui ho fatto riferimento prima: la crescita della produzione di petrolio e gas offshore, la tendenza a spostarsi più lontano al largo, solleva preoccupazioni sulla biodiversità oceanica».

Molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e in America Latina, dipendono pesantemente dall’industria degli idrocarburi. In Angola la sola produzione off-shore di petrolio contribuisce direttamente e indirettamente a circa il 50% del Pil del Paese e all’89% delle esportazioni, mentre in Nigeria il settore del petrolio e quello del gas producono il 70% delle entrate del governo: metà di queste sono legate all’off-shore. Come bisogna muoversi in questi casi sul tema transizione energetica?

«È difficile immaginare che la domanda di petrolio dalle acque di questi Paesi rallenterà rapidamente nel prossimo futuro, ma non sono un analista energetico e non ho visto proiezioni. Rimango preoccupato per la pesca su piccola scala molto grande e significativa in Nigeria e, in misura minore, in Angola, che potrebbe essere influenzata ed emarginata da queste operazioni». ©

Mario Catalano

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