La Blue Economy vola. In posizione strategica tra i mercati occidentali e orientali, l’Italia pare però non avere un programma di investimento efficace per far crescere la propria potenza marittima. «A livello globale gli scambi di merce via nave rappresentano il 90% dei volumi totali: 17 miliardi di tonnellate che corrispondono al 70% del valore totale a livello internazionale», spiega Mario Mattioli, presidente di Confitarma, associazione che riunisce oltre 230 tra gruppi armatoriali, società di navigazione, imprese ed enti per un totale di oltre 25mila addetti, che superano i 50mila considerando i comparti dell’indotto.
«A oggi il 57% delle importazioni italiane viene effettuato via mare, così come il 44% delle esportazioni. Dopo un periodo difficile, abbiamo per fortuna ripreso i valori pre-pandemia con circa 480 milioni di tonnellate di merci che sono movimentate nei nostri porti. Crediamo che sia necessario per l’Italia recuperi il suo valore marittimo che negli ultimi anni si è un po’ perso. Generalmente utilizziamo una metafora che è quella di non guardare l’Italia stando aggrappati alle Alpi e puntando al Nord, ma di stare con le spalle ai monti ammirando questa meravigliosa piattaforma logistica naturale che abbiamo».
La pandemia ha colpito duramente il comparto strategico…
«Ma non ci siamo mai fermati e siamo stati considerati come chiave della filiera logistica. I lavoratori marittimi hanno assicurato l’approvvigionamento presso negozi, supermercati, ospedali di tutto ciò che è servito durante quel triste periodo. Dal cibo agli apparati medicali e le medicine per non parlare del settore energetico. È stato il primo anello della catena logistica».
Mentre per traghetti e crociere è stato un vero disastro
«Con la maggioranza delle fabbriche chiuse abbiamo riscontrato un calo anche sui traffici: abbiamo quantificato un -20-25% rispetto a un trasporto complessivo di merci che in Italia si attesta su circa 480 milioni di tonnellate distribuite su tutti i porti. Per quanto riguarda il trasporto di passeggeri e il settore turistico è stato invece pari a zero. Un’ecatombe».
Ora il settore è ripartito. Ma va difeso, anche dalla concorrenza europea
«Lo dimostra quotidianamente il gap logistico italiano. L’Italia ha una posizione geografica di vicinanza al canale di Suez che andrebbe sfruttata di più. Gli ultimi dati di Confindustria ci dicono che le importazioni che vengono fatte a livello italiano, soprattutto nell’area del Centro Nord dove c’è una maggiore densità dal punto di vista degli stabilimenti industriali, importano dall’estero principalmente dal far East merci che, invece di transitare in Italia per poi rimanere qui, arrivano nel nostro Paese attraverso i porti del Nord Europa come Rotterdam, Amburgo e Anversa. Questo crea un duplice problema: il primo è che il viaggio della nave impiega tra i 5 e i 7 giorni in più a “salire” e altrettanti a “scendere”, quindi circa due settimane in più. In più quelle merci italiane che arrivano dal Nord Europa fanno poi una tratta gommata molto più lunga di quanto non farebbero se fossero scambiate direttamente in Italia. Inoltre, va considerato che il gettito dello sdoganamento, quindi imposte che vengono pagate, si corrispondono nel Paese di destinazione. In pratica incassano altri Paesi e solo dopo le merci arrivano Italia, con una perdita totale che combina tutti questi fattori di circa 70 miliardi».
Un cortocircuito logistico che per l’Italia sa di autolesionismo
«Sì, perché le nostre imprese di fatto utilizzano fondi prodotti dal PIL italiano per acquistare i loro beni in Far East, le navi che li trasportano – come dicevo – invece che fermarsi in Italia arrivano in Nord Europa ma le merci pagano dazio in quei Paesi, per cui contribuiamo al benessere della Germania, dell’Olanda e del Belgio. Poi, arrivano in Italia con una tratta stradale più lunga il significa anche un impatto ambientale molto più pesante. Il tutto con un ritardo notevole rispetto a quanto impiegherebbero sbarcando a Genova piuttosto che a Venezia o a Civitavecchia o nel Sud Italia».
Come si può invertire questa tendenza?
«Il concetto sarebbe quello di far diventare l’Italia meta delle più importanti rotte transatlantiche e oceaniche. Dal punto di vista dell’ottimizzazione sarebbe molto più comodo per il Nord Europa importare prodotti che vengono sbarcati qui da noi. Il problema è che non avendo negli anni lo sviluppo di una portualità all’altezza non riusciamo a essere attrattivi. I porti Nordeuropei sono stati più efficaci anche per garantire un rispetto della puntualità e quindi permettere alle navi un attracco immediato nel momento in cui arrivano».
Infrastrutture e logistica sono quindi settori in cui investire con forza
«Il fattore principale si chiama semplificazione, perché la nostra burocrazia è un freno enorme. Io devo avere la certezza che un contenitore o un’unità di merce che viene sbarcata in un porto riesca ad arrivare a destinazione in un tempo certo e questo l’Italia non ce lo dà anche e soprattutto per la funzionalità dei porti, quindi abbiamo fatto sì che le grandi catene logistiche si orientassero altrove. Siamo uno dei Paesi più antichi dal punto di vista della marineria ma abbiamo dimenticato di essere un Paese marittimo. Per questo serve anche un dialogo più facile. Pensi che oggi noi ci rapportiamo con otto ministeri diversi…».
E avete più volte richiesto la nascita di un Ministero del mare…
«Un Ministero della blue economy che deve dettare le regole su tutto ciò che riguarda il mare, dalla cantieristica al trasporto, passando per la pesca. Ma il settore interessa anche lavoro e sanità. Abbiamo una pletora di ministeri con cui dialogare: Economia, Lavoro, Sanità, Mise, Transizione ecologica… Il governo sta facendo uno sforzo notevole sul tema delle semplificazioni, però servono le riforme, semplificare non basta. Ogni norma di legge si rifà sempre a provvedimenti che sono abbastanza arcaici. La burocrazia deve applicare delle leggi ma se hanno criteri molto vetusti è normale che i tempi diventino drammatici. Basti pensare alle grandi opere. Tra fase di progettazione, messa a bando e inevitabili ricorsi, i lavori partono quando l’opera in teoria sarebbe già dovuta essere conclusa. Il tempo è una delle variabili economiche più importanti e le uniche cose che si riescono a fare con tempi europei sono quelle in deroga, come il ponte di Genova. Evidentemente sono le regole che non vanno più bene. In questo senso serve una rivoluzione anche culturale».
Come per la svolta green
«Un primo decreto ha stanziato 500 milioni di euro per il rinnovo delle flotte, ma con l’esclusione di intere tipologie di traffici e di navi, tra cui le quelle da crociera, per noi questo non è comprensibile. Mentre apprezziamo la logica del provvedimento legato al retrofitting, con un contributo fino al 50% se si fanno ammodernamenti per avere un beneficio sull’ambiente su una nave già esistente, non capiamo il provvedimento sulle navi nuove. Stabilisce la possibilità di avere un finanziamento fino al 30% del costo della commessa con un’ulteriore 10% se quella commessa nasce a fronte di una nave che viene rottamata. Lo trovo meno logico perché se prendo il costo una commessa e vado a conteggiare tutti gli elementi che compongono il costo di una nave, ci sono anche tanti elementi che non hanno nulla a che vedere con l’impatto ambientale e con la transizione: il ferro rimane ferro… Avremmo visto con molto più interesse un provvedimento che stanziasse una cifra indipendentemente da navi nuove o esistenti e che gli interventi andassero innanzitutto su tutte le tipologie di navi e poi potessero finanziare una quota di quell’investimento fatto in funzione del miglioramento dell’ambiente, come deciso in altre nazioni».
Avete evidenziato anche una criticità territoriale
«Il contributo limitato a quelle navi che per cinque anni faranno una navigazione mediterranea. Ci chiediamo: per quale motivo nel momento in cui si fa un provvedimento di agevolazione a certi investimenti si limita a una navigazione mediterranea? Così è inibito a navi che sono possedute da stabili organizzazioni e società italiane che hanno i loro traffici anche intra europei. L’ho detto anche al ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini: se un’impresa italiana opera fuori dal Mediterraneo si trova in uno svantaggio competitivo rispetto ad altre flotte europei che invece ricevono sostegno dai loro Paesi. Il dialogo con il governo è aperto e proficuo, spero che porti a risultati».
Saranno decisive quindi le risorse del PNRR?
«A patto che vengano spese bene…».
Priorità alla svolta green, ma non solo quindi…
«Sicuramente il tema della transizione ecologica è un tema enorme e un processo ineludibile. Le racconto un aneddoto: sulla sua scrivania il ministro Giovannini ha due modellini di auto, uno che va a idrogeno e uno che va ad acqua salata. Se riuscissimo a trovare il motore che ci fa girare sul mare utilizzando l’acqua salata avremmo risolto completamente tutti quanti i nostri prodotti… Scherzi a parte, è un tema fondamentale. Dobbiamo guardare alla filiera completa: se si osserva l’auto elettrica per esempio, dalla progettazione allo smaltimento, non ha un effetto così positivo come si crede. La stessa cosa si può dire se si parla di idrogeno: sappiamo perfettamente che produrre quell’idrogeno crea più emissioni che non bruciare direttamente un carburante fossile. La vera sfida è arrivare alla generazione di queste fonti energetiche attraverso il massimo utilizzo di rinnovabili o di forme alternative come, per esempio, l’utilizzo dei rifiuti».
Come si può fare?
«Sono necessari finanziamenti sulla ricerca e sullo sviluppo e questo certamente non può essere appannaggio delle categorie produttive, perché parliamo di investimenti veramente straordinari. Come Confitarma, facendo parte della international Chamber of Shipping, sosteniamo il loro progetto di creare un fondo destinato a fare ricerca sui carburanti alternativi di 5 miliardi di dollari in 10 anni, attraverso il pagamento di 2 dollari in più per ogni tonnellata di carburante fossile che viene utilizzata dalle nostre navi: ogni anno bruciamo circa 250 milioni di tonnellate di prodotti fossili. Ci sono delle tecnologie che stanno andando avanti ma servono aiuti perché progetti sperimentali diventino poi ingegnerizzabili e fruibili, con tutte le problematiche legate al fattore mare. Pensiamo che negli anni 50 le petroliere che portavano 36.000 tonnellate di prodotto erano considerate super petroliere, oggi 30.000 tonnellate sono il combustibile nelle navi contenitore. Ecco perché si tratta di una sfida colossale ma dobbiamo affrontarla».
Con queste premesse, se guarda al futuro del settore nei prossimi 5 o 10 anni, è ottimista oppure no?
«Sono un’ottimista realista. Il concetto di transizione per me è legato a un altro concetto importante: l’accompagnamento. Bisogna andare verso nuove forme di impresa, ma per fare questo c’è bisogno di sostenere l’esistente per poterlo sviluppare nel futuro. Serve uno sforzo importante dal punto di vista governativo anche per creare dei fondi che in qualche maniera possano essere utilizzati dalle società che svolgono attività di shipping, per continuare il proprio lavoro in questo momento ed essere messe nella condizione di poter guardare alla transizione. In questo percorso, le tante imprese armatoriali vanno sostenute per poter arrivare sane a traguardare un futuro con un impatto ambientale diverso e più vantaggioso. Altrimenti il 90% delle imprese finirà con l’essere lasciata per strada». ©
Mariano
Boero