I giganti della tecnologia tremano. Il crollo del titolo di Meta (casa madre di Facebook, Instagram e Whatsapp) avvenuto negli ultimi giorni ha riacceso i dubbi riguardo alla reale solidità dei membri del cosiddetto FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google). Queste aziende nell’ultimo decennio hanno trainato il mercato, grazie a Market Cap alti e in crescita costante. Questo perché si distinguono da sempre per una capacità di rispettare, e spesso superare, le attese degli investitori. Proprio ciò che è venuto a mancare ultimamente, con risultati stagnanti che stanno minando la fiducia degli investitori e riducendo le quotazioni. Quello che ci si chiede è se si tratti di un assestamento temporaneo o dei sintomi di una bolla in procinto di scoppiare. Una questione vitale, se si pensa che queste società costituiscono da sole più del 20% della capitalizzazione totale dell’S&P 500.
L’ANELLO DEBOLE
A far sorgere dubbi sono stati i deludenti risultati del quarto trimestre di Meta e le previsioni un po’ troppo prudenti. In un report pubblicato la scorsa settimana, l’azienda di Menlo Park ha annunciato per il primo trimestre del 2022 ricavi tra i 27 e i 29 miliardi di dollari, contro i 30,3 stimati dagli analisti. Da cui il crollo del 26% del titolo, che ha perso in un giorno 250 miliardi di capitalizzazione. Alla base della crisi abbiamo la stagnazione del numero di utenti delle piattaforme Facebook e Instagram, anche per via della concorrenza notevole della cinese TikTok. Un problema cui Mark Zuckerberg ha tentato di ovviare lanciando a fine ottobre l’idea del “metaverse”, uno spazio virtuale dove gli utenti possano interagire. Ma non è bastato, e dietro l’insuccesso intravediamo la vera debolezza di quello che è, ad oggi, il colosso dai piedi d’argilla del Nasdaq: la reputazione negativa del suo fondatore e dell’azienda stessa, legata negli ultimi anni a scandali, come i Facebook Papers, che allontanano potenziali investitori.
UNA CRISI PIÙ AMPIA
Il problema non si limita però a Facebook: dall’inizio dell’anno la quotazione di tutte le Big Tech è diminuita. Abbiamo casi moderati, come Apple, che è scesa solo dell’1,54%, ma anche situazioni più delicate, come quella di Netflix, scesa del 33,02%. E, anche se gli analisti sono divisi, esistono alcuni fattori che fanno temere per il futuro, almeno immediato, delle compagnie. Innanzitutto, l’inflazione galoppante che colpisce specialmente investimenti di questo tipo, ma anche l’avvento di nuove regolamentazioni che mirano a limitarne lo strapotere, in America, Europa, ma anche Cina. Non da ultimo, la concorrenza di nuovi competitor, sempre più agguerriti, talvolta provenienti da mercati con regole meno stringenti.
RISCHI MODERATI
È lecito, dunque, temere lo scoppio di una bolla? La maggior parte dei dati ci dice di no: le Faang restano ad oggi troppo dominanti per essere scalzate tanto rapidamente. Ciò non toglie che il momento di crescita stagnante che stanno vivendo potrebbe ridurre le loro astronomiche quotazioni. In più, il loro dominio, basato in gran parte sul monopolio su specifici ambiti, potrebbe essere attenuato da nuovi ingressi sul mercato, stimolati dai massicci investimenti di venture capital. Anche in questo caso, però, vanno fatte alcune distinzioni: nei settori a minore incertezza e con maggiori barriere all’entrata, come quelli di Google, Microsoft o Apple, questo rischio è più basso, e facilmente neutralizzabile. Non si può dire lo stesso per Netflix, Meta e in parte Amazon, i cui rispettivi settori presentano caratteristiche opposte: per loro la crisi potrebbe avere ben altra portata.
Marco Battistone
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