venerdì, 29 Marzo 2024

Idrogeno: davvero l’oro verde sarà il nuovo petrolio?

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L’idrogeno, nei prossimi anni parlerà emiratino e saudita. E Neom, l’eco-città pianificata nel deserto sulla costa del mar Rosso, si candida a essere la capitale mondiale dell’oro verde. «La vera possibilità sono i Paesi del Golfo. Per costruire dei parchi di produzione di ultimissima generazione ci vuole una quantità infinita di soldi», spiega Cinzia Bianco, analista ECFR (European Council on Foreign Relations). «Attualmente sono gli unici che hanno le potenzialità economiche». I due Stati scaldano già i motori. Gli Emirati Arabi Uniti con il Giappone ha trovato un’intesa con l’obiettivo di sviluppare una filiera per il commercio bilaterale di gas. Germania e Arabia Saudita hanno firmato un memorandum (MoU) sulla cooperazione nel campo della produzione, lavorazione, utilizzo, trasporto e commercializzazione congiunta dell’idrogeno pulito. Nel settembre 2020, i sauditi sono diventati i primi esportatori di ammoniaca – un elemento facilmente trasportabile per conservare l’idrogeno – in Giappone.

A quanto ammonta la stima degli investimenti?

«È difficile dare un numero preciso perché dipende da Paese e Paese. L’Arabia Saudita, a differenza di Marocco, Algeria ed Egitto, è già piena di soldi. Ha chiuso accordi con gli esportatori di tecnologia, tipo le macchine per l’elettrolisi, firmato accordi con la tedesca ThyssenKrupp, e iniziato la costruzione del parco di idrogeno verde a Neom, la città supertecnologica. L’inizio delle esportazioni è previsto tra il 2025 e il 2028».

L’oro verde sarà il nuovo petrolio?

«Sì. Il punto è quando. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman sono molto avanti, a differenza dei Paesi del Nord Africa».

L’Europa, dopo lo scoppio del conflitto russio-ucraino, sta pianificando un nuovo piano sulla transizione energetica: a breve sarà pubblicato il REPowerEU. Possiamo ritenerci soddisfatti?

«L’Unione Europea è l’attore internazionale con gli obiettivi più ambiziosi riguardo al clima e alla transizione energetica, non ci sono paragoni a livello globale. Dal punto di vista degli impatti socio economici, sia per le grandi aziende sia per il semplice consumatore, si sta programmando in maniera più morbida possibile. Un aspetto importante è che, oggi, le condizioni di mercato sono ben diverse dopo la guerra in Ucraina. Il conflitto ha generato due elementi fondamentali: ha fatto schizzare in alto i prezzi dell’energia fossile, sia del petrolio sia del gas; ha aumentato la necessità geopolitica di tagliare la dipendenza dalle energie russe. Questi due fattori hanno scombinato completamente i piani di transizione energetica dell’Unione europea. Adesso, è stata riscritta una strategia in cui si cerca di conciliare tre cose: sicurezza energetica, senza dipendere dalla Russia; necessità di fare una transizione energetica, quindi, proteggere il clima; contenere il più possibile la dipendenza dai combustibili fossili e attutire il colpo da un punto di vista socio-economico».

L’Europa riuscirà a essere indipendente da un punto di vista energetico?

«No, è un’idea assolutamentre utopica. Per produrre in casa l’energia che serve all’Unione Europea, bisognerebbe avere una capacità di produzione di energie rinnovabili di una dimensione e magnitudo sconfinata. I parchi solari avrebbero bisogno di spazi sterminati e di un’esposizione solare continua, costante e molto forte. A differenza, invece, del Golfo Persico e delle altre zone del Medio Oriente e nord Africa, dove ci sono maggiori potenzialità grazie alle distese di deserti con esposizioni solari continue e dirette. La frase “mai indipendente”, però, non bisognerebbe utilizzarla quando si parla di settori dove l’evoluzione tecnologica è molto rapida e con la ricerca scientifica-tecnologica si possono fare dei passi avanti veramente monumentali in breve tempo. A oggi non esistono le tecnologie per cui l’Unione Europea possa essere indipendente e, quindi, non debba importare energia possibilmente pulita da Paesi extra europei».

L’Italia, grazie alla sua posizione strategica, può diventare uno snodo cruciale…

«In Europa si investirà per creare un mercato energetico unico. Questo significa costruire gasdotti ed elettrodotti che colleghino i vari Paesi transnazionali. Tutto ciò lo possono fare due Stati che sono entrambi nell’UE. Solo così si può ottenere il massimo livello di collegamento».

Quali sono i pilastri fondamentali per un’ottima transizione energetica in Europa?

«Appoggiarsi su una serie di fonti e risposte molteplici, non una singola fonte rinnovabile come l’eolico, il solare o l’idrogeno. La parola chiave è diversificare, anche da un punto di vista dei combustibili fossili, come il GNL. Anche qui bisogna differenziare i provider, non solo la Russia ma anche e, a maggior ragione, il Qatar, l’Algeria, l’Azerbaigian e altri Paesi dell’Africa subsahariana».

Il Next Generation EU quanto può incidere positivamente nella energy transition: possiamo raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo?

«Possiamo avere degli strumenti necessari. È il cosiddetto silver bullet che risolve tutto? No, perché è difficile con una transizione così monumentale avere un’unica risposta. Ma è importantissimo perché è un passo per raggiungere gli obiettivi del Green Deal e iniziare quel percorso virtuoso nell’indirizzare gli investimenti verso la transizione energetica».

Quanto sono importanti i porti in tema di energy transition?

«Possono diventare degli hub strategici per il commercio dell’energia verde. Se c’è una spedizione di idrogeno Arabia Saudita-Italia è molto probabile che prima debba fermarsi in Egitto. Quindi, i Paesi del Mediterraneo, sponda sud e sponda nord, diventeranno strategici per i commerci e i flussi energetici».

Quale sarà il ruolo della Turchia?

«Rimane ancora un Paese molto ambiguo».

In che misura inciderà la transizione energetica nella lotta al cambiamento climatico?

«Senza energy transition non esiste la lotta al cambiamento climatico, non lo si può contenere a meno che non si smetta di usare combustibili fossili».

C’è il pericolo che si arrivi troppo tardi rispetto al punto di non ritorno della crisi climatica?

«Assolutamente sì. Possiamo sempre sperare, ma il rischio è molto alto». ©

Mario Catalano