venerdì, 26 Aprile 2024

Malattie al pancreas, Bassi (UniVr): «Serve una politica sanitaria ad hoc»

pancreas

L’Istituto del Pancreas veronese è un’eccellenza nazionale interamente dedicata a diagnosi, cura e ricerca delle patologie pancreatiche, grazie all’esperienza maturata in oltre 40 anni di lavoro da un gruppo di diversi specialisti. Il Prof. Claudio Bassi è Ordinario di Chirurgia Generale all’Università di Verona, Direttore dell’UO di Chirurgia Generale e del Pancreas dell’Ospedale Policlinico “Giambattista Rossi” – Borgo Roma e Responsabile dell’Istituto del Pancreas, di cui l’Unità Operativa da lui diretta fa parte, insieme ad altre Unità cliniche: Gastroenterologia, Oncologia, Radiologia, Endoscopia, Anestesia e Rianimazione, supporto psicologico. L’Istituto è, infatti, il primo Centro italiano per lo studio, la ricerca e la cura delle malattie pancreatiche con un approccio multidisciplinare. Il Prof. Bassi ha anche l’onore e l’onere di essere Presidente della Fondazione Italiana per la ricerca sulle Malattie del Pancreas (FIMP), una realtà di rilevanza nazionale, che lavora a stretto contatto con l’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas, supportandola in maniera importante nel fund raising e nell’identificazione dei settori su cui focalizzare la ricerca.

«La caratteristica fondamentale dell’Istituto è la multidisciplinarietà, avviata grazie a una visione profetica di alcuni grandi maestri, quali – solo per citarne alcuni – il Prof. Paolo Pederzoli, il Prof. Carlo Procacci, il Prof. Giorgio Cavallini che, 40 anni fa, hanno dato origine al primo nucleo del gruppo pancreatologico veronese con un approccio multidisciplinare, in un periodo storico in cui la multidisciplinarietà non era assolutamente né sentita né dovuta, come invece è oggi per tutta la medicina moderna. L’esperienza chirurgica del Centro negli ultimi 10 anni supera i 5.000 interventi e l’attività di ricerca e la formazione sono riconosciute a livello internazionale».

Quali sono le principali malattie che possono colpire il pancreas e perché è spesso complicato diagnosticarle e curarle?

«Le principali malattie che colpiscono questo organo sono di tipo infiammatorio – pancreatite acuta e pancreatite cronica – e di tipo tumorale. Sia la diagnosi che la cura sono ancor oggi complesse, e infatti la Pancreatologia è una disciplina molto recente. Basti pensare che fino a 50 anni fa il pancreas non si “toccava” nemmeno e le prime report chirurgiche di una certa consistenza, assolutamente di tipo pionieristico, risalgono agli anni Quaranta. Il pancreas è, infatti, un organo che si trova in grande profondità nell’addome, difficile da studiare in fase pre-operatoria ed è solo grazie all’evoluzione della tecnologia e della radiologia più moderna che oggi abbiamo una comprensione abbastanza realistica delle sue malattie. È inoltre un organo molto delicato che, operato, può creare complicanze estremamente pericolose, per questo la chirurgia pancreatica risulta ad oggi altrettanto difficile e richiede molta esperienza e competenze elevate».

Il tumore al pancreas è considerato ancora uno dei più aggressivi. Qual è la situazione in Italia?

«La patologia tumorale al pancreas preoccupa particolarmente per un motivo epidemiologico, perché è previsto che per il 2030 sarà la seconda causa di morte per neoplasie, dal quarto posto che occupa ad oggi. Se gli altri tumori oggi si curano molto meglio – pensiamo al tumore della mammella, del colon, del polmone o a tutta la patologia genito-urinaria maschile e femminile, che oggi viene affrontata con risultati straordinari rispetto al passato – e quindi la loro curva di mortalità diminuisce, nel campo della patologia pancreatica facciamo ancora molta fatica a trovare strade alternative alla terapia tradizionale. Dobbiamo sicuramente riconoscere che l’Oncologia e le tecniche chirurgiche di ultima generazione hanno fatto notevoli passi avanti, tuttavia il pancreas è ancora difficile da trattare perché le mutazioni genetiche che stanno dietro alla malattia sono numerose e complesse, così come i meccanismi di carcinogenesi. Anche dal punto di vista farmacologico i risultati non sono ancora sempre efficaci, perché spesso i farmaci non riescono a penetrare bene il tessuto tumorale che nel pancreas è particolarmente fibroso e poco vascolarizzato. In più i sintomi iniziali sono molto subdoli e spesso possono mimare una banale gastrite o un banale mal di schiena. I risultati di conseguenza sono molto meno evidenti rispetto ad altre patologie oncologiche. Se 45 anni fa – quando ho iniziato a lavorare come chirurgo – la sopravvivenza media di un paziente operato per un tumore al pancreas era di 9 mesi, oggi siamo a 36, con una sopravvivenza a 5 anni di circa il 30% rispetto al 2% di un tempo. Abbiamo quindi avuto sicuramente una risposta straordinaria, ma è chiaro che questi dati, se confrontati con altre neoplasie, come prima dicevo, sono ancora deludenti e la forbice è così grande che dobbiamo ancora lavorare tanto, insistendo sulla linea della multidisciplinarietà che è l’unica vincente»

Quanto conta, per le patologie tumorali pancreatiche, la prevenzione?

«Purtroppo una prevenzione specifica dei fattori di rischio a livello pancreatico non c’è. La prevenzione è dunque quella generale, consigliata da tutti i medici per le altre malattie oncologiche: condurre una vita sana da un punto di vista dell’alimentazione, non abusare dell’alcol, non fumare, svolgere regolare attività fisica, non andare in sovrappeso».

Come si sta muovendo la ricerca nei confronti della neoplasia pancreatica?

«Siamo in un momento di grande vivacità. Il futuro di questa malattia si orienta su due elementi fondamentali: l’interdisciplinarietà e la traslazione, ossia la trasposizione a livello clinico di quello che noi riusciamo a capire nei laboratori di anatomia patologica e di biologia molecolare. La ricerca clinica sta andando a esplorare sempre più consequenzialità e modi con cui chirurgia, oncologia medica e radioterapia si devono interfacciare e combinare tra loro, applicandoli al singolo paziente o a gruppi di pazienti, che riusciamo a selezionare non solo attraverso le classificazioni standard legate all’istologia della malattia e alla sua clinica, ma anche a nuove mappe genetiche ottenute dal sangue o dai tessuti malati. In sintesi, identifichiamo come alcuni geni possano essere indicativi di una maggiore o minore sensibilità di quel paziente o di quel gruppo di pazienti a determinati farmaci, sapendo anche che alcune caratteristiche genetiche ci possono dare indicazioni sul tipo di malattia, più o meno aggressiva, con la tendenza a recidivare in loco o a dare metastasi a distanza. Grazie alla multidisciplinarietà e alla traslazione, stiamo insomma capendo progressivamente come alcuni pazienti con determinate caratteristiche biologiche abbiano decorsi e quindi percorsi clinici diversi e possano quindi rispondere meglio ad approcci farmacologici sempre più personalizzati e a scelte temporali differenti di cura».

Che ruolo hanno le Associazioni Parenti e Pazienti in questa patologia?

«Importantissimo. Oggi ci sono molte associazioni a livello sia nazionale sia locale, che stanno dando una grandissima mano alla diffusione della conoscenza della malattia e alla sensibilizzazione sulla necessità che ci siano, a livello nazionale, più Centri Pancreatologici specializzati ad alto volume di pazienti e ad alta esperienza, che proprio per le difficoltà intrinseche alle patologie pancreatiche, sono fondamentali ma che purtroppo ad oggi sono davvero ancora troppo pochi e quasi tutti concentrati al Nord. Penso ci sia bisogno da un lato di fondi e dall’altro di una politica sanitaria che affronti seriamente il problema e che, al di là di qualsiasi altro interesse, metta al centro solo una questione: la miglior cura possibile del paziente». ©

A cura di Sanità e Benessere eFocus