venerdì, 26 Aprile 2024

Moda second hand, è boom: il resale è davvero sostenibile?

resale moda

La moda second hand cambia pelle e grazie al digitale vede il mercato del resale raggiungere vette inimmaginabili fino a qualche anno fa. Un settore, quello dell’e-commerce di prodotti usati, in continua crescita. Le stime – fonte ThredUP, retailer nordamericano di abiti second hand che monitora il comparto del resale – dicono che negli Stati Uniti la salita sarà del 217% in più entro il 2026, raggiungendo un business di 82 miliardi di dollari.

«Dal punto di vista digitale e retail gli Stati Uniti sono sempre avanti, quello che parte da loro arriva poi anche in Europa e in Italia», spiega Erica Corbellini, Professoressa di Management of Fashion Companies SDA e Università Bocconi.

Viste le stime, quindi che cosa accadrà al retail?

«Non deve essere separato dal mondo digital. Quindi anche all’interno dei negozi fisici ci dovranno essere dei corner, degli spazi, per i prodotti second hand, ma anche per il recycling e l’upcycling, come oggi fa Patagonia. Dovranno farlo tutti, per dare la possibilità di riparare ciò che si è acquistato, valorizzarlo inserendo delle personalizzazioni che rendano unico il prodotto. E per la stessa ragione bisognerà dare la possibilità di acquistare prodotti oggi chiamati pre-loved, attraverso la ricerca dei negozi aprendosi anche ad altri marchi in caso di multimarca. Insomma, bisognerà offrire la possibilità di allungare il ciclo di vita del prodotto, con una grande integrazione del digitale in formule ibride fisico-virtuali. Magari provo un certo outfit second hand da casa grazie alla realtà aumentata, poi vado in negozio ad acquistarlo e personalizzarlo o anche solo a noleggiarlo. Questa secondo me sarà la nuova frontiera».

L’81 per cento di chi ha fatto acquisti nell’usato per la prima volta, prevede di spendere lo stesso importo, o di più, nel corso dei prossimi 5 anni. Il 41% afferma che il second hand è la prima opzione che prende in considerazione e il 46% dei Gen Z e Millennial, prima di fare un acquisto, pensa anche al suo possibile valore nel mercato del resale

«Io parlerei di due fenomeni convergenti: da una parte un’attenzione maggiore al rapporto qualità-prezzo. Bisogna anche valutare il momento di crisi economica che stiamo vivendo, perché, all’interno della piramide del lusso, il segmento che oggi è più in crisi è quello del cosiddetto lusso accessibile. È evidente che, in un momento come questo, i consumi che vengono limitati sono quelli dei consumatori aspirazionali. Chi era ricchissimo prima continua a esserlo, chi magari si comprava una borsa, una cintura, un accessorio ogni tanto andrà ora a tagliare proprio su questo per risparmiare.

La conseguenza è che ci si indirizza verso un consumo per il quale si ha lo stesso valore, ma a un prezzo più basso, grazie proprio al second hand o a fenomeni come il renting (possibilità di noleggiare un capo). Quindi c’è una necessità economica che è conseguenza dell’impoverimento della fascia media di consumatori, ma c’è anche un’attenzione che va di pari passo a un discorso di consumo più sostenibile, di economia circolare, di allungamento di ciclo di vita del nostro guardaroba.

Tutto questo ha portato a riqualificare quello che era il mercato del second hand e si vede anche attraverso le parole che oggi vengono usate per definirlo: da second hand a pre-owned fino addirittura a pre-loved. Non è più un qualcosa di “usato” e come tale con accezione negativa e dequalificante rispetto al prodotto a prezzo pieno. È già stato amato, così aiuto ad allungare il ciclo di vita del prodotto e questo valorizza la mia scelta in un’attitudine al consumo che rifugge dall’iperconsumismo. Poter dire che un prodotto è stato comprato su una piattaforma di resale diventa ormai un motivo di orgoglio, qualcosa in cui ci si può identificare a livello valoriale, non è più il segnale che si è dovuto risparmiare».

Le abitudini di acquisto dei clienti non sarebbero così diverse dalle modalità di fruizione del fast fashion: la stessa ricerca incessante della novità, la spinta all’accumulo e al ricambio continuo. In questo modo però si incentiva comunque l’iperconsumismo…

«Assolutamente sì. Tant’è che in molti parlano di Green washing anche a questo proposito. Bisogna fare un distinguo. C’è chi vende beni che hanno un valore intrinseco tale che permette loro di durare nel tempo come ad esempio gli accessori di lusso che, per definizione (la qualità della materia prima, il carattere iconico dello stile), sono in grado di durare nel tempo. E infatti, in questo senso, la piattaforma Vestiaire Collective ha deciso di bannare i brand del fast fashion che prima invece vendeva. Quindi vediamo che alcune piattaforme cercano di qualificarsi in maniera più coerente nel mondo del lusso. Poi abbiamo, invece, il fenomeno del fast fashion che continua a indurre a un iperconsumo, paradossalmente proprio tramite il fatto di poter acquistare una cosa e immediatamente rivenderla o di poter acquistare qualcosa a un prezzo ancora più basso di quello pieno».

Il resale di lusso o di qualità aiuta l’economia circolare perché prolunga il ciclo di vita di prodotti già destinati a durare, realizzati con i tessuti migliori, materiali e fibre naturali, spesso biodegradabili. Ma con il fast fashion la storia è diversa…

«Anche in questo caso i brand si stanno dotando di piattaforme di resale, da H&M a PrettyLittleThing, perché è un’altra forma di business e induce ancora di più a un consumo accelerato dei prodotti. Il problema qui è proprio a monte. Non è tanto se si sceglie il second hand o il prodotto full price. Il punto è proprio la logica del produrre a basso valore a livello di qualità e con alta negatività a livello di impatto ambientale e di condizioni di lavoro, generando continui desideri».

Come si concilia tutto questo successo con la maggiore attenzione alla sostenibilità dei consumatori?

«Ogni volta che si fanno delle ricerche emerge che le nuove generazioni sono sempre più attente al tema della sostenibilità e questo è un dato di fatto. Però vediamo anche lo sviluppo del marchio Shein e di altre piattaforme di questo tipo. Quando io ho la possibilità nelle mie classi di parlare con gli studenti e raccogliere i loro pareri chiedo: “Non è un paradosso che facciate attenzione alla sostenibilità, ma che poi compriate sempre di più da questi siti?”.

La risposta che mi viene data è che hanno un budget limitato e che questo viene suddiviso non solo nell’acquisto di prodotti di moda, ma anche di esperienze (l’aperitivo, i viaggi, la tecnologia…), insomma hanno un paniere di scelta molto più ampio di quanto avessimo un tempo.

Ma non solo: rispetto alle generazioni passate, le nuove sono cresciute con in mente un prezzo più basso. Per una persona che ha sempre visto la possibilità di acquistare una maglietta a 5-10 euro, l’idea di doverla acquistare a 40-50 euro è destabilizzante. Quindi c’è anche un problema proprio di prezzo-indicatore di quel tipo di bene, sono cresciuti e impregnati in una cultura del fast fashion.

Terzo elemento, molto interessante che è emerso è quello che in inglese viene definito social signaling, cioè il fatto di segnalare sé stessi attraverso i social media. Ai miei tempi per andare a una festa non avrei indossato lo stesso abito poi per andare a un’altra in cui ci sarebbero stati gli stessi invitati, però lo avrei potuto indossare di nuovo in contesto diverso.

Il fatto che oggi le nuove generazioni facciano foto e video dei loro outfit fa sì che brucino subito quel look. Quell’immagine non è più duplicabile perché è già stata comunicata e questo induce una continua necessità di aggiornare il guardaroba. Questo si somma al fatto che i nuovi social, da questo punto di vista, sono molto invasivi.

Se pensiamo a TikTok, vengono lanciati in continuazione nuovi trend, sempre più brevi, spinti da influencer che improvvisamente hanno tutte quel tipo di gloss, di plateau o prodotto, creando continui bisogni che per essere soddisfatti portano necessariamente a rivolgersi al fast fashion per essere “sostenibili” in termini di prezzi».

Quanto ha influito la pandemia su questo mercato?

«Il tema è quello dell’accelerazione digitale: la maggior parte di queste piattaforme, anche per offrire varietà e certificazioni (perché c’è un problema di autenticità di ciò che acquistiamo) sono digitali. Il fatto che sempre più, come risultato della pandemia, il consumo di moda si sia spostato sul digitale, favorisce il resale».

Ci sono differenze rispetto all’utilizzo di queste piattaforme tra GenZ e Millennials?

«La differenza è che la GenZ è più imprenditoriale rispetto a quella dei Millennials: non solo acquista, ma vende. I Millennials si sono ritrovati con questa novità e l’hanno abbracciata. La GenZ non l’ha solo ricevuta, ma ne è diventata anche protagonista. Sono loro i primi a fare business su queste piattaforme».

Questo in qualche modo spiega anche i risultati di una ricerca di Mourning Consult, sempre riferita agli USA, da cui emerge che, mentre i compratori di moda second hand di lusso sono in crescita, i venditori diminuiscono. Così però si crea uno squilibrio, con che effetti nel lungo termine?

«Sì, si verifica perché la GenZ è orientata a vendere quello che ha negli armadi, per cui fast fashion. Se ha qualcosa di lusso tende a tenerselo. Per il resto dipende dal concetto di lusso stesso. Recentemente Hermès ha dichiarato che l’azienda non è assolutamente orientata ad avere una sua piattaforma di second hand, decisione in controtendenza rispetto, ad esempio, a un gruppo Kering che ha acquisito Vestiaire Collective.

Di fatto parliamo di beni che, quando sono realmente di lusso, sono scarsi, prodotti in piccole quantità, per pochi, fortunati acquirenti. È un po’ come il mercato degli orologi di lusso, esiste il reselling, ma con liste d’attesa, perché la domanda di quel tipo di orologi supera di gran lunga l’offerta. Lo stesso vale per alcune borse (pensiamo alle Birkin di Hermès). Quando è vero lusso c’è scarsità».

Alcuni brand – anche di lusso – si stanno dotando di piattaforme interne di second hand (pensiamo a Isabelle Marant), perché hanno fiutato l’opportunità. Come cambia quindi la loro strategia?

«Secondo me è una decisione molto corretta da un punto di vista imprenditoriale. Il problema vero di tutte queste piattaforme alla fine è la profittabilità dal momento che, sì vediamo queste crescite, ma c’è qualche dubbio sul fatto che lo siano realmente perché hanno una marginalità bassa. Però è anche vero che la prima ragione per gestire il resale all’interno dei marchi è appropriarsi di quella profittabilità anziché lasciare che lo faccia qualcun altro.

La seconda è l’engagement che si crea con il consumatore e il tipo di messaggio che posiziona il marchio come attento all’economia circolare. La terza è prevenire il fatto che si mettano in giro falsi: nel momento in cui internalizzo, il consumatore che vuole comprare l’autentico lo compra da me piuttosto che da qualcun altro che non dà garanzia di autenticità direttamente da parte del brand.

Infine, così facendo si fa recruiting sui consumatori futuri delle nuove generazioni, che oggi magari comprano per la prima volta come resale e un domani a prezzo pieno quando avranno un potere d’acquisto superiore (ipotesi che trova conferma nei numeri diffusi da Isabelle Marant, che a un anno dal lancio della propria piattaforma resale, ha dichiarato che due terzi dei clienti che hanno acquistato second hand da loro è diventato un nuovo acquirente, ndr). Quando presto consulenza consiglio sempre di sviluppare queste piattaforme».

Questo fenomeno può modificare la macchina operativa che spingeva a creare collezioni continue durante l’anno?

«Sì, se prendiamo come assunto il fatto che il reselling destinato a durare sarà quello di prodotti iconici, come conseguenza sarà sempre più impellente per i brand creare delle icone. Cosa non così facile, perché solo il tempo ci dice cosa diventa iconico e cosa no. Tutti vorrebbero creare la nuova Birkin o il nuovo Daytona, ma solo col tempo si capisce se questo è avvenuto. Però si possono creare dei prodotti più ragionati, che abbiano delle qualità anche di versatilità, che ne rendano possibile un utilizzo più a lungo. Con più attenzione al fatto che si debba produrre meno, ma produrre meglio.

E questo porterà a ragionare su un’offerta mirata per poter avere un ciclo di vita del prodotto lungo, non solo perché dura per proprietà qualitative ma anche perché stilisticamente diventa atemporale, che non vuol dire necessariamente classico. L’atemporalità di Versace è molto più colorata e vistosa dell’atemporalità di Armani: ognuno darà, nei confini della propria identità stilistica, il suo punto di vista, definirà dei prodotti che siano coerenti con la sua missione».

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2023 de il Bollettino. Abbonati!