giovedì, 2 Maggio 2024

Bancassicurazioni alla ribalta, in crescita la protezione

Sommario
bancassicurazione

Un’assicurazione più vicina all’utente, alla portata di tutti. Un obiettivo per gli addetti ai lavori, ma anche una necessità per chiunque, in un periodo in cui rischi e incertezza sono più forti che mai, su tutti i fronti. Proprio favorire questa apertura verso polizze più accessibili e vicine alle esigenze della clientela è uno degli scopi principali della Bancassurance. Una soluzione già nota, che, combinando le capacità di rete e le basi di clientela delle banche con le specifiche competenze del settore assicurativo, vuole essere vantaggiosa per tutte le parti. Ma la  Bancassicurazione è anche un settore in netta crescita: stando alle ultime stime, avrebbe già raggiunto un fatturato globale da 1,2 trilioni di dollari, puntando a sfondare la soglia dei 2 trilioni entro il 2026 (Fonte IIA, 2023). Un obiettivo realistico? «Queste stime di medio termine vanno sempre prese con grande cautela. Soprattutto per la Bancassicurazione, un comparto tra i più sensibili ai contesti locali», dice Andrea Battista, AD di Net Insurance, compagnia dalla forte vocazione specialistica di recente acquisita da Poste Italiane. Tuttavia, «una crescita c’è ed è riscontrabile soprattutto nel segmento della protezione, per via di un aumento contemporaneo della domanda e dell’offerta». Una crescita accompagnata dalla parallela difficoltà del segmento vita finanziario, in perdita per la prima volta da 10 anni e scosso dal recente dissesto di Eurovita. In un modo o nell’altro, l’intero settore è in netto movimento ed è difficile prevedere quali forme prenderà il nuovo riassetto. Anche se l’esplosione di soluzioni digitali di Insurtech detta senza dubbio una direzione.

Andrea Battista, AD di Net Insurance

Su quali segmenti si distribuisce la crescita prevista per il settore?

«Bisogna distinguere almeno tra vita finanziario, motor e protezione. Se vogliamo individuare una tendenza allo sviluppo della Bancassicurazione, vale soprattutto quest’ultimo business. Il motor si è dimostrato non molto facile da approcciare da parte delle banche, sembra più adatto ad altri player. Non che le banche lo evitino, ma hanno una quota di mercato sempre abbastanza stabile e abbastanza piccola, senza crescite significative. Quello delle polizze vita è un mercato molto grosso, ma soprattutto in Italia: se uno va altrove, anche questo tipo di prodotti entra dei prodotti finanziari e non passa per la bancassicurazione. Dove invece potremmo individuare una tendenza globale è nella protezione, cioè tutto il resto: la salute, la casa, la famiglia in generale, il travel e il mondo PMI, che fa sempre parte del retail, quando standardizzato. Si tratta di un contesto molto variegato, ma anche ben identificabile. E qui ci sono dei fattori abbastanza generalizzabili. Uno è la domanda: in un mondo incerto, complesso, volatile, la domanda di protezione tende ad aumentare. In più, i sistemi pubblici riescono a soddisfarla sempre meno, per via della crescita della spesa pubblica. Un po’ ovunque, anche nei Paesi tradizionalmente statalisti, come l’Italia, diventa inevitabile che la gamba privata continui ad aumentare il suo peso, progressivamente. Poi c’è un fattore di offerta. Le banche sono alla ricerca di altri ricavi, si sono strutturate, vuoi più o vuoi meno, come reti di vendita diversificate, e investono sulla consulenza patrimoniale al cliente a 360 gradi. Il business protezione entra molto bene in questo contesto».

Da un punto di vista di fruitori, è una crescita che guarda più alle famiglie o alle imprese?

«Anche qui, suddividiamo: il vita finanziario si rivolge certamente alle famiglie. Qui più che di crescita parlerei di stabilizzazione di un mercato già molto grande, certamente trasformato dalla crescita dei tassi d’interesse, che se vogliamo hanno ripristinato condizioni di normalità, seppur destabilizzando nell’immediato. Anche in merito alla protezione, abbiamo una prevalenza della parte famiglie rispetto alle imprese. Bisogna sottolineare, però, come una delle novità positive degli ultimi anni sia stata la capacità della Bancassicurazione di portare la piccola e media impresa nel mondo dell’assicurazione. Certo, in Italia, entrambi i cluster sono per ora sottoassicurati, ma questo apre interessanti potenzialità. Solo le grandi imprese, avendo per definizione più mezzi, tendono a essere assicurate o comunque, quando non lo sono, a muoversi sulla base di scelte pienamente consapevoli. Anche sulle aziende, dunque, la Bancassicurazione mostra di essere capace di svolgere il suo ruolo storico di introdurre al mondo assicurativo, cominciando da aspetti più basici. Prodotti più semplici, di ingresso e standardizzati, che nel tempo potrebbero evolvere in una domanda più ricca. Si inizia da cose più semplici e poi, col tempo, una fascia di questi clienti aumenta la sua propensione assicurativa».

Eppure, proprio per la sua natura mista, la Bancassicurazione a prima vista non ha l’aria di essere così semplice. È solo una questione di percezione?

«La semplicità non è, concordo, una caratteristica di tutti i prodotti di questo tipo. Ma è senz’altro una caratteristica desiderabile. La Bancassicurazione si può fare in due modi: uno, quello in cui io credo fermamente e che ho sempre cercato di praticare, è totalmente diverso dall’assicurazione tradizionale: è un altro mondo, costruito con prodotti, processi, strategie e comunicazione diversi. C’è poi chi adotta una strategia di diversificazione: ho già i prodotti tradizionali degli agenti e ne faccio un restyling, cambiando solo alcuni dettagli. Quelli raramente diventano veri prodotti di Bancassicurazione, cioè semplici, standardizzati e flessibili. Per il comparto vita, nello specifico, il discorso è chiaramente diverso: distinguerei dal punto di vista dell’emittente e da quello del cliente. Certamente, alcuni prodotti possono essere complessi da gestire, come i garantiti con un rischio di tasso e matching tra attivi e passivi. Ma soprattutto per chi li emette. Ciò che il cliente percepisce è solo un rendimento, pagato annualmente o alla fine. Per i prodotti fortemente garantiti del vita, la complessità se la addossa la compagnia e si fa giustamente remunerare per quello. Quando parliamo di semplice e complesso, in generale, bisogna sempre vedere i termini di paragone».

Di recente, ha fatto molto parlare il caso Eurovita. Si tratta di un “mariuolo isolato” o è sintomo di problemi strutturali?

«La relazione del presidente IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, ndr) in merito parla di specifici problemi relativi alla compagnia, che ovviamente hanno risentito particolarmente dell’impatto dell’aumento dei tassi d’interesse. L’aumento repentino dei tassi è un problema per tutti, ovviamente , perché può diminuire la capacità delle aziende di affrontare il rischio di liquidità e mette sotto stress la strategia di investimento e reinvestimento Ma era un passaggio necessario: una battuta che faccio ogni tanto è che a lungo termine non c’è vita nel pianeta dei tassi zero. Però è chiaro che la transizione, avvenuta così rapidamente, è stata uno shock. Tuttavia, non metterei così tanto l’accento nemmeno su questo aspetto, perché il settore si è comunque mostrato resiliente. La perdita aggregata di sistema di quest’anno, poche centinaia di milioni, è chiaramente contingente e non strutturale. Insomma, Eurovita è un caso isolato, ma il test è per tutti, e finora ha evidenziato un’ottima capacità di resistere».

La convergenza di interessi tra banche e assicurazioni in questo settore potrebbe favorire una parallela tendenza alla fusione strategica?

«La combinazione conglomerale andava molto di moda prima della crisi finanziaria. Si tratta ormai di 15 anni fa, quando si parlava del famoso modello olandese. Poi, per ragioni non tanto legate al modello, ma alla stessa gestione di quei conglomerati, la crisi aveva un po’ seppellito quest’ipotesi. Se vogliamo, rimane in ballo il caso francese, perché BNP Paribas potrebbe essere considerata come una combinazione di banca e assicurazione, anche se con alcune caratteristiche molto specifiche. Ma la sintesi è che difficilmente sono venuti meno gli effetti che quell’ondata di crisi così violenta e radicale aveva portato. E forti razionali nuovi per questa combinazione molto forte non ne sono apparsi, per cui al momento non è tema nel dibattito o nei progetti. Certo, ci sono compagnie che a volte hanno forti avvicinamenti o partecipazioni in banche. Ciò detto, non vedo una tendenza a riportare in vita un modello sepolto».

Secondo il Digital Bancassurance Index dell’Italian Insurtech Association, entro fine 2023, il 50% delle banche utilizzerà strumenti digitali per vendere polizze, il 90% nel 2030. Sono cifre che riscontra nel mercato o previsioni un po’ ottimistiche?

«Questa è una previsione cui tenderei a credere, ma che è meno rilevante di quello che sembra. La banca diventa sempre più una sorta di supermercato finanziario e assicurativo, per cui è ovvio che debba avere un po’ tutto. E il digitale è una tendenza forte, che è qui per restare: io tenderei a dire che nel 2030 il 100% degli istituti di credito offrirà soluzioni digitali. Il punto è quanto saranno chiave nell’offerta e quanto invece un prodotto minore messo a scaffale, con scarsi volumi prodotti. Qui si presentano due interrogativi: il primo riguarda la crescita dei prodotti digitali in quanto tali. Poi, ammesso che riescano a decollare entro la fine del decennio, se sarà la banca a essere protagonista di questo decollo. Io credo piuttosto che le banche potranno essere soprattutto al centro della distribuzione che riguarda ancora la valorizzazione dell’elemento fisico, ancorché sempre più digitalizzato. Credo meno nel settore bancario protagonista della produzione puramente digitale. Per un semplice motivo: la banca è meno posizionata per sfruttare e impegnarsi nell’embedded insurance, cioè l’inserimento il prodotto assicurativo in un quadro di servizi più ampio. Tutti questi sistemi, la polizza salute nell’ecosistema salute, la polizza casa nell’ecosistema immobiliare, sono più event-driven, cioè legati a eventi specifici. La banca ha una grande customer base, è molto integrata, è alla frontiera tecnologica del digitale. Tuttavia, se guardiamo alle polizze digitali, queste sono legate a logiche più ampie, di assicurazione intesa come estensione di un servizio».

Sarà quindi uno spazio di mercato aperto soprattutto alle compagnie assicurative vere e proprie?

«In generale per altri player. Dire che sarà riservato alle assicurazioni tradizionali sarebbe un po’ forte. A me piacerebbe vederlo aperto per le assicurazioni specialistiche come Net Insurance, naturalmente, ma questo è forse più un auspicio che una previsione».

I prossimi protagonisti di questo cambiamento saranno dunque gli incumbent dotatisi di nuove tecnologie, magari attraverso acquisizioni, o nuovi attori in ascesa dal basso?

«Secondo me c’è spazio per una e per l’altra soluzione e vedremo combinazioni anche difficili da immaginare. Quello che è fondamentale è l’approccio specialistico. Non si fa l’innovazione con la mano destra mentre con la sinistra si fa qualcosa d’altro. Per citare un esempio evidente: Unipol di recente ha lanciato nel settore auto – di cui è leader – qualcosa di innovativo, totalmente diverso e verticale, con la piattaforma BeRebel. L’incumbent ha di per sè meno tensione a innovare, ma quando lo fa ha più risorse, anche per eventuali acquisizioni, da movimentare. Dopodiché, resta vero che l’innovazione nasce altrove, nella startup verticale e dedicata, però questa si può combinare con operatori specialistici in vario modo. Io credo che l’innovazione la faranno gli specialisti, siano essi autonomi o parte di grandi gruppi. La differenza, in ogni caso, la fa l’approccio verticale».

Guardando al contenuto di quest’innovazione, quali sono, a suo parere, gli sviluppi di Insurtech che impatteranno di più il settore nei prossimi anni?

«Vedere un trend dominante per anni non è facilissimo. L’innovazione digitale è un potpourri di elementi diversi che si combinano in modo imprevedibile, anche a breve distanza di tempo. Certamente, vedo una digitalizzazione massiva ovunque, anche nelle compagnie tradizionali. Sarà digitalizzato il prodotto tanto quanto il processo, in tutte le fasi della catena del valore. Poi si parla tanto, anche troppo, di intelligenza artificiale: chiaramente tutto ciò che riguarda lo sviluppo di algoritmi di nuova generazione legato ad analisi dei dati di stampo non convenzionale avrà un ruolo. In questo campo, è probabile che ci saranno pochi esemplari di successo, ma anche molteplici fallimenti, come già adesso. Da qualche parte si legge che nove progetti su dieci di AI falliscono, ma quello che ha successo, avrà certamente un impatto significativo».

La crescente smaterializzazione di queste procedure non potrebbe rappresentare un rischio riguardo alla trasparenza e al grado di consapevolezza di un cliente, come quello italiano, con un’educazione finanziaria mediamente scarsa?

«Il rischio c’è sempre. È fondamentale che il grado di educazione finanziaria e assicurativa aumenti, grazie alla spinta verso più iniziative possibili in questo senso. Però il digitale si presta ad affrontare fasi di transizione meglio di qualsiasi altra piattaforma tecnologica. Innanzitutto, è molto più amichevole all’utilizzatore. Ha una forma che si presta ad aumentare, di per sé, il grado di educazione e consapevolezza. In più, è quanto di più tracciato e tracciabile si possa immaginare. In generale, tende a produrre soluzioni più semplici e comprensibili rispetto all’assicurazione più tradizionale. Il rischio c’è, dunque, immanente nel sistema, ma non è certo il digitale a esserne il responsabile principale».                     ©

📸 credits: Canva, Net Insurance

Articolo tratto dal numero dell’1 luglio 2023. Abbonati!

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".