giovedì, 14 Novembre 2024

Patto di stabilità: da giugno le nuove regole

Sommario
patto di stabilità

La normativa che regola i debiti pubblici degli Stati membri rientrerà in vigore da giugno 2024, all’indomani delle elezioni europee, con regole nuove. «Vorrei capire chi oggi dice che il nuovo Patto è più flessibile dove l’ha letto. La verità è che non lo si sa, proprio perché lo si scopre solamente quando si comincia il negoziato», dice Veronica De Romanis, economista e docente di Politica economica europea presso la Stanford University e la LUISS Guido Carli.

 Sospeso nel 2020 per via della clausola di salvaguardia, applicabile per gravi periodi di recessione come la crisi pandemica, il Patto di Stabilità torna dopo un negoziato estenuante. A segnarlo, il braccio di ferro tra le richieste di elasticità di Francia e Italia e quelle di soglie precise da parte della Germania. Il risultato è un compromesso che lascia le tradizionali cifre, ma allunga i tempi. Come funziona? Ogni soggetto avrà il suo piano di aggiustamento del debito quadriennale, ma prorogabile fino a sette anni. In più, il periodo 2025-2027 sarà considerato di transizione e prenderà maggiormente in considerazione gli interessi sul debito, che nel nostro Paese potrebbero superare i 100 miliardi di euro nel 2024.

Si pensava che questa svolta sul Patto avrebbe potuto sbloccare qualcosa sul Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto “Fondo salva-Stati”. Invece, è stato bocciato. Come si spiega?

«Questa è per me una cosa abbastanza assurda. Il MES, la revisione del trattato, è stata negoziata molto bene a suo tempo dal Governo Conte 1. Infatti, nella proposta iniziale (ne avevamo già parlato qui) si voleva inserire una analisi di sostenibilità dei vari debiti, ma fu tolta questa procedura, perché avrebbe significato dire che i debiti hanno una sostenibilità diversa, e non è un bel segnale che si dà ai Mercati. Questo tipo di analisi è invece incluso nel nuovo Patto, poiché divide i debiti in categorie di sostenibilità, una cosa che secondo me non è buona per un Paese ad alto debito come il nostro. Quindi a me sorprende molto che il nostro Paese dica di no al MES, dove non c’è l’analisi di sostenibilità, e al tempo stesso dica di sì al patto dove c’è. Non vedo davvero una logica, soprattutto da parte di un Paese che ogni giorno deve dialogare con i Mercati».

Quali sono le differenze rispetto al vecchio accordo?

«Il vecchio Patto di Stabilità era basato sulla seguente logica: criteri quantitativi uguali per tutti, che vuol dire stesse riduzioni di disavanzi e stesse riduzioni di debito. C’era poi una certa flessibilità, cioè la possibilità di spendere più dei limiti a debito nel caso in cui un Paese volesse investire o fare delle riforme. Il nuovo Patto ha una logica completamente diversa. La proposta della Commissione su cui si è innestata la trattativa era la seguente. Eliminare i criteri quantitativi uguali per tutti e fare dei negoziati bilaterali tra Paesi e Commissione. In pratica, quest’ultima deciderebbe lei stessa una traiettoria tecnica di aggiustamento specifica per ogni Paese. Di conseguenza, cambia la logica. Invece di avere un’uguaglianza di trattamento, si va verso tanti accordi su misura, in poche parole».

Ci sono state modifiche rilevanti rispetto a quanto la Commissione aveva inizialmente proposto?

«Durante questi due anni di negoziato sono emerse due posizioni. Da un lato, quella dei Paesi del nord, capitanati della Germania, che volevano tornare a dei criteri quantitativi paritari. Non gli andava giù che questa nuova proposta desse maggiori poteri alla Commissione, che potrebbe decidere, ad esempio, che la Grecia farà un certo aggiustamento, mentre l’Italia ne farà un altro, prendendosi un maggiore potere. La Germania ha detto no e ha proposto nuovi criteri. Ma altri Paesi, come Italia e Francia, volevano maggiore flessibilità per gli investimenti. Mettendo insieme queste due posizioni, viene fuori l’accordo nuovo. Vediamo che si ritorna alla vecchia logica, però qual è il problema? Che è stata messa su un nuovo schema, quello della traiettoria scelta dalla Commissione. In conclusione, io lo definirei un gran pasticcio. Quello che è stato approvato ieri è uno schema assolutamente non trasparente, di certo non semplice e che dà più poteri alla Commissione. Il tutto in uno spirito che in un certo senso è simile a quello del passato. Allora la mia domanda è: ma era veramente necessario fare questa revisione? Le vecchie regole andavano così male? Io direi che forse non era così».

Ma, dopo tanto tempo e trattative, ci sono dei vantaggi evidenti per l’Italia in questa soluzione?

«No, proprio perché è uno schema non trasparente. Pone come punto iniziale della trattativa questa traiettoria tecnica decisa dalla Commissione europea e non nota in precedenza. C’è un’enorme discrezionalità. Poi ci sono anche dei criteri quantitativi, quindi aggiunge ulteriori complicazioni, però io direi che non c’era alcuna esigenza di cambiarlo, tanto meno a sei mesi dall’elezione europea. Si potevano attendere le elezioni, eleggere una nuova Commissione, che è comunque quella che si occuperà di far valere il Patto riformato, e poi ricominciare le trattative a settembre: avrebbe avuto molto più senso politicamente. Nel decidere questa traiettoria tecnica, la Commissione la descrive come un aggiustamento più graduale di quattro o sette anni a seconda che si facciano le riforme o meno. In poche parole, viene replicato lo schema del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con benchmark specifici e verificabili imposti Paese per Paese. Ora, in questo secondo me c’è un grave equivoco di fondo: il PNRR utilizza fondi europei, debito europeo, quindi ha un senso che l’Europa controlli come e quando vengono effettuate le spese. Le regole di cui stiamo parlando, invece, vanno a monitorare i debiti nazionali. È una cosa molto diversa, perché noi non siamo in una unione fiscale. Spero che ci arriveremo, ma ad oggi non ci siamo, i Paesi hanno la competenza per quanto riguarda le spese, le tasse, i debiti, i deficit e quindi l’Europa non può entrare dentro la politica economica in questo modo. Ecco perché io sento che con questo nuovo schema la Commissione acquisisce poteri che prima non aveva e che non dovrebbe avere, in mancanza di una revisione dei trattati».

Certo, quindi in sostanza non c’è un chiaro beneficio per il Paese, almeno finché non si sa la decisione della Commissione?

«Esatto. Io sfido chiunque oggi mi dice che c’è più flessibilità a spiegarmi su che base lo dice. Non è che se uno ha più tempo per fare un aggiustamento vuol dire che l’aggiustamento annuale è più basso. Lo vedremo, perché proprio si basa su un altro schema, lo schema del negoziato bilaterale tra i vari Paesi e Bruxelles. È molto plausibile, per esempio, che l’Italia avrà un aggiustamento più pesante di quello della Grecia. E allora politicamente come lo spieghiamo? Anche perché se il Paese non è d’accordo con questa traiettoria tecnica, questo percorso che viene definito dalla Commissione, cosa fa? Comincia una battaglia con l’Europa? I Mercati non reagirebbero tanto bene. E poi la traiettoria tecnica è decisa sulla base della sostenibilità del debito pubblico, che è una cosa molto delicata e molto variabile a seconda delle interpretazioni».

Le cifre del 60% di rapporto debito PIL e di 3% di rapporto deficit PIL massimi rimangono, a quanto pare…

«Certo, ma questo perché, come dicevo, questa riforma non rivede i trattati. E il 60% e il 3% sono nei trattati».

Oggi sono molti i Paesi europei sopra questa soglia. È ancora realistica?

«I Paesi piccoli sono tutti sotto il 60%. È tra i grandi il problema. Ma anche lì, la Germania era in linea prima del Covid-19».

In che modo questo accordo influenzerà la politica economica del Governo?

«Qui bisogna vedere i dettagli del testo. Per ora non l’influenza, perché c’è un periodo transitorio. Dopodiché, vedremo quando il nostro Ministro dell’Economia andrà a Bruxelles e comincerà il suo negoziato e la Commissione gli proporrà una traiettoria tecnica. Dipenderà da come è calcolata. Certo, politicamente avrebbe avuto molto più senso che la traiettoria tecnica fosse proposta dallo Stato membro e non dalla Commissione. Un negoziato al contrario, insomma».

Si aspetta che le regole possano cambiare ancora molto di qui a giugno, quando dovrebbero entrare effettivamente in vigore?

«Oramai, l’impianto è deciso. Quello che vanno definiti ora sono i dettagli».

Per quanto riguarda le elezioni, invece, è comunque una svolta su un tema chiave. In che modo potrebbe cambiare lo scenario?

«Questa decisione avrà un grande impatto politico nella campagna elettorale. Dato che questo schema dà maggiori poteri alla Commissione, i partiti antieuropeisti populisti faranno una campagna elettorale affermando che questo accordo ha dato maggiori poteri a Bruxelles. È il famoso “ce lo chiede Bruxelles”, “ce lo impone Bruxelles” che sentiamo da tempo. Ecco perché secondo me politicamente era una riforma con molte criticità e soprattutto questo tipo di negoziati si fanno non in campagna elettorale».

Le ultime manovre di bilancio italiane sono state, almeno sulla carta, virtuose, più in linea coi parametri europei che in passato. Crede che questo ci darà una forza negoziale quando ci sarà da decidere la traiettoria di aggiustamento?

«Il problema dell’Italia è che in questa ultima legge di bilancio il debito rimane pressoché stabile, ma questo avviene al verificarsi di due condizioni. La prima è una crescita piuttosto sostenuta: abbiamo bisogno di un 1,2% nel 2024, ma Banca d’Italia ha già previsto che l’incremento sarà più o meno la metà di così. In secondo luogo, è previsto un punto percentuale di PIL di proventi da privatizzazioni nell’arco di un triennio, circa 22 miliardi di euro. Anche questa è un’ipotesi molto, molto ottimistica. Di conseguenza, dal punto di vista dei Mercati, il debito sale e questo è contrario non solo al nuovo Patto ma anche al vecchio».

Di cosa ha bisogno il Paese per correggere la rotta del debito?

«È molto semplice. Il Governo dovrebbe leggere quello che aveva scritto nella Nota di Aggiornamento al DEF, ovvero l’impegno a ridurre il rapporto debito PIL. E il rapporto, cosa che nel dibattito pubblico non emerge, non si riduce solo attraverso la crescita, quindi attraverso il denominatore. Quando il numero da ridurre è un 140%, bisogna agire anche sul numeratore, cioè sul debito. Questo significa che bisogna fare un’azione sulla finanza pubblica, cioè la famosa spending review. Inevitabilmente bisognerà ridurre, ma soprattutto riqualificare la spesa, cioè mettere le risorse, che sono scarse e limitate, lì dove davvero servono. E chi può farlo meglio che un Governo politico? Perché tagliare è un’azione… la più politica che c’è, bisogna avere la responsabilità e il potere di togliere da una parte e mettere da un’altra. Ecco, penso che il piano per i prossimi anni debba essere un’azione politica di lungo termine. Il Governo lo ha scritto, ora bisogna metterlo in atto».               ©

📸 Credits: Canva.com

Articolo tratto dal numero dell’1 gennaio 2023 de il Bollettino. Abbonati!

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".