sabato, 7 Dicembre 2024

Patto di stabilità, tassi e inflazione: cosa ci aspetta

Sommario

La BCE non cede sull’aumento dei tassi. A marzo salgono ancora una volta, con il tasso di rifinanziamento principale che raggiunge il 3% per la prima volta dal 2008. «L’obiettivo della stabilità dei prezzi al 2% nei prossimi 24 mesi è chiaro», dice Veronica De Romanis, docente di politica economica europea alla Stanford University e alla LUISS, già membro del Consiglio degli Esperti presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ma non è tutto da Francoforte: la Banca Centrale ha infatti sostenuto la necessità di tornare a una stretta sul debito dopo le deroghe del periodo pandemico. È chiaro come, in questa fase, l’entità del debito pubblico italiano, ma soprattutto la sua sostenibilità, meritino una considerazione in più. Infatti, se nel 2019 il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano era al 138%, la cifra sale oggi al 147%, complici le spese e la contrazione del momento. Ora che la musica è cambiata, l’Italia sarà costretta a trovare nuovi modi per ridurre o comunque contenere la crescita del debito. Certo, per adesso si tratta per una quota considerevole di debito consolidato, detenuto per quasi un terzo dalle Banche Centrali. Ma «da marzo», ricorda De Romanis «si aggiungerà un ulteriore strumento, il Quantitative Tightening, con cui non saranno rinnovati acquisti di titoli per 15 miliardi». E presto, per la prima volta da tempo, l’Italia sarà chiamata a portare il suo debito sulle spalle.

Come si spiega la svolta della BCE sul debito?

«Come ha affermato la Presidente  Christine Lagarde, il contesto è cambiato. La situazione degli anni scorsi presentava inflazione bassissima o nulla, tassi estremamente bassi e governi nazionali che potevano spendere a debito, perché questo veniva comprato dalla BCE e vi si aggiungeva debito europeo, come Next Generation EU e SURE. Quello che ha annunciato Christine Lagarde è la fine di questa stagione. È stata chiara e ha tracciato la strada, soprattutto per i Paesi ad alto debito, come l’Italia. Il compito della banca centrale è fare la lotta all’inflazione, ma ci vuole un coordinamento con le politiche fiscali nazionali, che non devono andare a minare il lavoro della BCE. Se le politiche fiscali nazionali continuassero a essere espansive, questo sarebbe controproducente per quello che sta facendo la BCE».

Veronica De Romanis, che ci parla di tassi.
Veronica De Romanis, Stanford University e LUISS Guido Carli
Qual è la situazione in relazione all’inflazione?

«Si è sempre detto che gli Stati Uniti hanno un’inflazione da domanda e noi abbiamo avuto un’inflazione da offerta. Anche per questo ci sono state critiche alla politica monetaria della BCE, che non sarebbe servita a far fronte a un’inflazione da offerta. Ma a dire il vero la situazione ora è diversa. E lo vediamo dai dati, lo hanno spiegato molto bene sia Christine Lagarde nella sua ultima conferenza stampa sia il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco all’ultimo Congresso Assiom Forex. Se guardiamo all’inflazione i dati ci dicono che oramai a gennaio è scesa al 10,1% rispetto all’11,6%. Però se guardiamo quella depurata da energetici e alimentari, cioè l’inflazione core, in Italia non fa altro che salire. Era al 5,6 % a novembre, al 5,8% a dicembre e al 6% a gennaio. Questo vuol dire che l’inflazione sta diventando da domanda. Per questo la BCE fa molto bene a seguitare con un incremento dei tassi d’interesse».

Qual è il cammino tracciato per l’Italia in questa nuova stagione?

«Ci vogliono innanzitutto, nel brevissimo termine, delle politiche di bilancio che siano selettive, cioè bisogna ricomporre la spesa, dando aiuti a chi ne ha bisogno. Finisce l’epoca del tutto a tutti, e infatti molto bene ha fatto il governo Meloni a togliere lo sconto sulle accise introdotto, a mio parere sbagliando, dal governo Draghi. Non si può, per un Paese come il nostro, dare lo stesso tipo di aiuti a chi è povero e chi è ricco, soprattutto se non hanno nessun impatto sulla domanda. Quindi per prima cosa, nel breve termine si deve selezionare e ricomporre la spesa pubblica: mettere i soldi lì dove servono. Nel medio termine, bisogna ridurla. Chi ha un debito molto ampio, cioè uno spazio fiscale limitato, deve cercare di ricostituirlo per non esserne indebolito. Significa ritornare su una traiettoria debito/PIL decrescente. Come si fa? Con la famosa spending review, di cui abbiamo scritto anche nel nostro PNRR e di cui si parla da anni. Un governo politico come il nostro non ha alibi e ha anzi la responsabilità di metterla in atto. Questa transizione in due fasi serve a creare spazio fiscale, cioè la possibilità di aumentare il debito senza produrre instabilità per noi e per gli altri. Averne ci permette di sederci ai tavoli negoziali».

Su quali fronti si dovrà agire in concreto per attuare queste misure?

«Innanzitutto, dobbiamo essere i primi a portare avanti il PNRR, perché oggi i creditori sono molto titubanti. Quello strumento, messo in campo così velocemente, era necessario di fronte a una crisi pandemica totalmente inaspettata, che ha sorpreso tutti. Ma anche grazie ad esso noi diventiamo per la prima volta percettori netti invece che contributori netti, e quindi abbiamo gli occhi puntati. Anche perché siamo l’unico Paese, con la Grecia e la Romania, ad aver accettato per intero i prestiti. Insomma, abbiamo preso una grande responsabilità, sia nei confronti dei creditori europei, sia nei confronti delle future generazioni. Ricordiamoci che l’Europa, per quel che riguarda la revisione degli investimenti, la tempistica e la ricomposizione, non hanno detto di no. Sulle riforme invece sono molto chiari, ma per un motivo semplice. Se sono aumentati dei prezzi, allora gli investimenti si possono cambiare o rivedere, ma sulle riforme è una mera questione di volontà politica. E quello è debito europeo che ci viene dato non perché abbiamo negoziato bene, ma perché siamo il Paese messo peggio, perché la distribuzione delle risorse è avvenuta in base a criteri molto oggettivi: più alto è il tuo tasso di disoccupazione più ricevi, più basso è il tuo PIL pro capite più ricevi».

Che ne sarà delle regole di bilancio come il Patto di stabilità, ora che il peggio della pandemia è passato?

«Le regole di bilancio europee limitano il disavanzo al 3% e il debito al 60%. Sono un importante strumento di coordinamento per evitare instabilità. Ricordiamoci che noi condividiamo la moneta, siamo in 20 oramai, però abbiamo 20 ministri del tesoro. Queste regole durante la pandemia sono state sospese, perché è prevista dai trattati una clausola secondo cui quando c’è una crisi generalizzata i Paesi devono sospendere. Ma verranno rimesse a partire dall’anno prossimo, a meno che non vengano riformate».

Trova che la proposta di riforma portata avanti dalla Commissione sia adeguata alla situazione?

«No, e a mio avviso il governo italiano dovrebbe osservare con attenzione la proposta della Commissione di revisione del Patto e anzi farsi promotore di una proposta alternativa. Quello che propone la Commissione è di dividere i Paesi in tre gruppi di debito: i Paesi ad alto debito, a medio debito e a basso debito. All’interno di ogni gruppo si negoziano con la Commissione accordi bilaterali di aggiustamento simili al PNRR. Ma questo pone almeno due problemi: uno è che queste regole si applicano su debito nazionale. La responsabilità e la competenza sulle politiche di bilancio per ora spettano ai governi nazionali, perché non siamo in un’unione fiscale. Per questo trovo che questa sia un’enorme interferenza da parte della Commissione Europea. È normale che si impongano dei requisiti di debito, ma è anomalo che si impongano modi per raggiungerli. Il secondo problema è che avrebbe conseguenze disastrose in un’unione monetaria classificare i debiti per livelli diversi. E io penso che il passo tra la nuova proposta della Commissione e questo sia molto breve: abbiamo già visto proposte di questo genere in passato e le abbiamo rigettate come dovremmo rigettare questa».

Ma il Patto di stabilità è davvero bisognoso di una revisione?

«Io vorrei dalla Commissione che ci dicessero perché le vecchie regole non hanno funzionato. Perché la sensazione, guardando ai dati, è che in molti Paesi abbiano in realtà funzionato. Laddove hanno fallito è stato perché la Commissione ha applicato interpretazioni diverse a seconda dei casi. Questo non vuol dire che l’Italia non debba ridurre il proprio debito. Ce n’è bisogno e ci sono tutte le carte in regola per farlo. Ma il debito si riduce attraverso le decisioni dei governi nazionali».

La vendita di titoli che il Quantitative Tightening prevede non rischia di creare instabilità?

«Non credo. Finito il Quantitative Easing inizia il Quantitative Tightening, è normale. Bisogna ricordare che il Pandemics QE è stato anche un programma flessibile, quindi non sono state seguite le capital keys. È stato comprato più debito italiano. Quello che ora va fatto è portare avanti una strategia adeguata di breve e medio termine, fermo restando che la crescita non è sufficiente, sebbene necessaria. Bisogna anche agire sul numeratore, cioè il debito, del rapporto debito/PIL, attraverso processi di ricomposizione o riduzione. Sono scelte politiche che pagano, anche dal punto di vista della crescita».

La frammentazione di cui si parlava l’anno scorso e contro cui è stato istituito il TPI (Transmission Protection Instrument) rappresenta ancora un rischio concreto?

«Questo è un dubbio che in parte rimane. Ma se avvenisse una divisione in categorie di debito del Patto di stabilità potrebbe influire sul TPI stesso. Infatti, le regole perché venga messo in atto il TPI includono il rispetto dei piani di risanamento e il non avere squilibri macroeconomici eccessivi o essere in fase di correzione e rispettare le regole di bilancio. Quindi vediamo quale sarà il quadro futuro. Per ora vediamo che lo spread è a livelli buoni, i mercati sono fiduciosi e ci sono tutti gli strumenti per fare bene. È vero che l’ultima legge di bilancio era in qualche modo già pronta, mentre il vero banco di prova del governo sarà la prossima. Ma per ora, il governo ha varato una legge di bilancio molto prudente e infatti  lo spread è rimasto contenuto».

Per riportare a livelli sostenibili l’inflazione sarà necessario passare per una recessione?

«I numeri sono positivi rispetto alle attese e lasciano sperare. Solo Germania e Italia nel quarto trimestre sono andate in negativo, e di poco, lo 0,2 e lo 0,1% rispettivo. In compenso l’acquisito italiano è +0,4%, quindi è facile che raggiungeremo il +0,6% scritto nella legge di bilancio. Il programma della BCE è già tracciato: combattere l’inflazione evitando un disancoraggio delle aspettative. Ma il resto, in particolare la distribuzione del costo dell’inflazione, lo devono fare i governi nazionali. Bisogna essere capaci di far pagare a chi può permetterselo».

Ormai la stessa comunicazione dei banchieri centrali è divenuta strumento di politica monetaria. Condivide le critiche alla comunicazione della BCE?

«Le rispondo con una battuta: per anni la BCE ha avuto un compito facile, cioè abbassare i tassi. Per la prima volta da anni, Christine Lagarde ha il difficile compito di alzarli. E comunicare decisioni di questo tipo, per forza di cose, non è mai facile».                       ©

Articolo tratto dal numero dell’1 marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".