Novità in arrivo entro il 2024 da Bruxelles. Protagonista il Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) o Supply Chain Act: un documento che il Parlamento europeo ha varato lo scorso giugno, e che, se definitivamente approvato, si tradurrebbe in una direttiva per limiti più stringenti alle grandi aziende su sostenibilità e diritti umani per dipendenti e fornitori.
«Il tema che si pone è quello della giustizia ambientale e sociale, due binari che viaggiano di pari passo», dice Martina Rogato, Founder della società di consulenza ESG Boutique, attivista per i diritti umani e a sua volta consulente aziendale. «Al di là delle questioni etiche, non è più materialmente pensabile che l’industria continui a produrre violando diritti e inquinando l’ambiente». Le speranze che la direttiva entri presto in vigore si sono però infrante di fronte al NO dello scorso 27 febbraio da parte degli ambasciatori dei 27 Paesi europei, chiamati a esprimere il proprio voto al Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti: organo del Consiglio UE composto dai capi o vice-capi delegazione degli Stati membri e da un alto numero di comitati e gruppi di lavoro subordinati).
«Provo un forte senso di disappunto per quanto accaduto a Bruxelles. Ora il Consiglio dovrà trovare un nuovo compromesso per non disattendere richieste che provengono da società civile, cittadini e imprese che chiedono giustizia socio-ambientale e tutela della competitività Ue. È essenziale che gli Stati membri rispettino i risultati dei negoziati istituzionali e non facciano marcia indietro sugli accordi».
Qual è la portata di questa nuova direttiva?
«C’è necessità di regole comuni e si garantirebbero maggiore uniformità e certezza del diritto a livello europeo, considerando anche quante normative sul Green sono uscite negli ultimi anni. L’argomento infatti non è assolutamente nuovo, sia in riferimento alla sostenibilità sia ai diritti umani. Si parla di questi temi da almeno quindici anni, da quando nel 2009 Amnesty International ha aggiornato le proprie linee guida su ambiente e giustizia sociale. L’OCSE ne parla dal 2001. E poi per alcuni Stati la normativa esiste già. Per esempio la Germania ha una legge sull’obbligo di due diligence per le aziende. In Francia dal 2017, mentre in UK esiste una normativa sulla piaga della schiavitù moderna».
Le aziende di grandi dimensioni come potranno mettersi in pari con i nuovi obblighi europei?
«Tenendosi aggiornate su quanto accade a Bruxelles e sulle nuove regole che saranno emanate. Dopodiché aiuta il fatto che vi sia molta letteratura proveniente dagli altri Paesi europei su come adeguarsi. In estrema sintesi quello che devono fare le aziende per adempiere ai nuovi obblighi è introdurre al proprio interno una policy, un codice di comportamento valido per tutta la catena di produzione, anche a livello di fornitori. Quindi, in soldoni, stilare un documento in cui l’azienda descrive i propri valori e le norme da rispettare. Quello che consiglio è di non ridursi all’ultimo».
Tecnicamente quali sono i passaggi da seguire?
«Fare formazione interna sui diritti e, quindi, impegnarsi a creare un ambiente adeguato a accogliere la nuova normativa. Dunque procedere con una survey interna con cui indagare su quali siano secondo dipendenti e manager le sfide da perseguire. Una volta stabilite le norme interne e un codice di comportamento serve anche indicare cosa accade nel caso in cui si violino le norme e a chi segnalare. Va quindi istituito un organismo ad hoc a cui sottoporre le violazioni e che poi ne gestisca la valutazione. Altrimenti il rischio è quello di incorrere nella vittimizzazione secondaria delle persone: cioè si segnala ma poi non accade nulla, e anzi chi segnala subisce un giudizio negativo».
È qualcosa di assimilabile al whistleblowing?
«In gergo si chiama meccanismo di grievance, che è una modalità che consente di fare segnalazioni riguardanti violazioni dei diritti umani. È un qualcosa di più esteso rispetto al whistleblowing, che invece si riferisce alla sola corruzione aziendale».
Come si possono aiutare le aziende in questi percorsi?
«ESG Boutique accompagna i brand nel loro primo approccio alla sostenibilità sociale e alla diversity. Negli anni abbiamo disegnato policy, scritto report, misurato impatti e pianificato strategie. Abbiamo anche partecipato alla nostra prima fiera sulla moda circolare, e con un parterre di docenti abbiamo aperto le porte del nostro studio online offrendo masterclass su due diligence e diversity management».
Qual è lo scopo principale della due diligence?
«È accertare, attraverso una raccolta di informazioni, le condizioni di un’azienda, in termini di valore. Se ne parla quando ad esempio c’è una cessione di una società o una vendita, per verificare la fattibilità di certe operazioni. E può interessare gli ambiti più disparati dell’attività di un’azienda, da quello commerciale, al finanziario e creditizio, all’ambientale. Nel caso della direttiva, saranno da individuare i diritti umani coinvolti nell’attività di una impresa e i possibili impatti negativi causati dalla propria attività. Ad esempio, banalmente, se c’è sfruttamento della manodopera».
Chi riguarderà la direttiva?
«La direttiva dovrebbe riguardare tutte le aziende Ue con almeno 500 dipendenti e un fatturato netto di 150 milioni di euro. Per queste aziende l’adempimento andrà eseguito a partire dal 2026. Poi ci sono le imprese con più di 250 dipendenti e con un fatturato netto superiore a 40 milioni di euro. Per loro l’adeguamento è previsto per il 2028».
Significa che le più piccole possono disinteressarsene?
«Al contrario. Le PMI devono guardare con soddisfazione alla direttiva, perché va in direzione di una tutela del tessuto produttivo italiano. Le piccole e medie imprese si trovano spesso a dover subire loro malgrado contratti predatori e pratiche commerciali messi in atto da altre aziende magari extra Ue, che possono causare violazioni dei diritti umani, dei diritti del lavoro e dell’ambiente».
Sarebbe una vittoria per tutti
«Con la direttiva si andrebbero a ridurre i costi della concorrenza sleale dei fornitori extra Ue, che si troverebbero in questo modo obbligati a adattarsi agli standard Ue in materia di diritti umani e ambiente. I piccoli produttori italiani che puntano sulle persone non si vedrebbero così passare davanti competitor che calpestano sistematicamente i diritti umani stracciando i prezzi e portandoli al massimo ribasso. Questo, con i nuovi obblighi, non si potrà più fare».
In che modo giustizia ambientale e sociale si parlano tra loro? Come sono collegate le due materie?
«Pensiamo a una fabbrica che emette gas e che inquina per via aerea. Se quel luogo è vicino a una comunità, come minimo si sta mettendo a repentaglio il diritto alla salute degli abitanti. Ma questo vale per qualsiasi industria inquinante che si trovi vicino a città o a campi di coltivazione. A un certo punto quel gas o quelle sostanze tossiche di altro tipo si depositeranno su un campo, per esemplificare, di pomodori. Prodotti che consumerà appunto la comunità locale o che finiranno forse su una filiera più grande».
I diritti concernenti il lavoro sono insomma fortemente connessi con la sostenibilità ambientale
«Se c’è una famiglia che vive di quel business, tornando ai pomodori, si sta violando il diritto al lavoro delle persone. Tornando sul discorso della concorrenza sleale, invece, la direttiva CSDDD andrebbe a proteggere i lavoratori e le imprese che rispettano gli standard sul lavoro rispetto a chi non lo fa. E il riferimento va subito a quelle aziende che siglano contratti in subappalto a catena, senza osservanza dei diritti dei lavoratori, che poi producono gli effetti drammatici che conosciamo, come le morti sul lavoro».
Lei è anche un’attivista per i diritti delle donne e nei prossimi mesi si profilano appuntamenti importanti
«A dicembre è iniziata la presidenza italiana del Women7, il gruppo ufficiale di attiviste del G7 sulle pari opportunità. Si tratta di un gruppo di impegno civile ufficiale istituito nel 2018 per promuovere proposte sull’uguaglianza di genere e sui diritti delle donne. In Women7 sono Co-Chair e avremo il compito di guidare il movimento internazionale e predisporre per il G7 di giugno un set di raccomandazioni che riguarderanno il lavoro delle donne, l’empowerment finanziario, la lotta alla violenza, la giustizia climatica e la pace e sicurezza. Obiettivo è portare il gender mainstreaming sul tavolo dei leader e strappare loro un impegno concreto».
Quali sono i nodi che rendono la strada verso la parità di genere ancora lunga?
«Guardando nel mio campo, nonostante nel settore della sostenibilità ci sia una grande rappresentanza di donne, sussistono ancora stereotipi che considerano le donne poco capaci di operare in queste materie. Per non menzionare quelli che ci vorrebbero meno “adatte” a studi e carriere tech. In questo senso mi sento di dire che il ruolo delle scuole e dei media rimane fondamentale per cambiare la narrativa e incoraggiare ogni ragazza a esprimere il suo pieno potenziale».
E poi c’è il gender pay gap…
«Non bisogna mai dimenticarlo, perché in media si attesta al 13% a livello europeo ed equivale a mesi di lavoro gratuito da parte delle donne. Come se le donne lavorassero per filantropia o vocazione e non per una retribuzione».
Su quali punti si concentreranno le raccomandazioni ai governi?
«Le indico tre priorità. La prima è la rappresentanza significativa di donne e ragazze nei processi decisionali a tutti i livelli della vita socioeconomica e politica dei Paesi G7. A seguire la lotta alla discriminazione strutturale utilizzando strumenti come le valutazioni dell’impatto di genere, analisi di genere e indicatori di uguaglianza di genere. E poi implementare il gender responsive budgeting, che garantisca un paritario accesso alle opportunità per tutti, anche stanziando fondi sufficienti per sostenere le associazioni impegnate sui diritti delle donne». ©
📸 Credits: Canva
Articolo tratto dal numero del 1° aprile 2024 de il Bollettino. Abbonati!