Gli accessori in pelle Made in Italy conquistano il commercio internazionale. E lo dimostrano i dati della Filiera Pelle di Confindustria Moda, che indicano un export nel periodo gennaio-ottobre 2023 in salita dell’1,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e un fatturato complessivo pari a 33 miliardi. «Cresciamo, contribuendo in modo significativo al saldo commerciale positivo del Paese», dice Annarita Pilotti, Presidente di Confindustria Moda. «Anche se il nostro è un settore composto da tante piccole e medie imprese, che hanno difficoltà a competere sui mercati stranieri».
E invece internamente ci si mette il costo del lavoro troppo alto…
«I nostri prodotti rispettano tutti i parametri e questo provoca l’effetto che in Italia il costo del lavoro sia molto elevato. Un altro problema è dato dal rapporto tra costo del lavoro e retribuzioni nette. Il risultato è che per le nostre aziende diventa più difficile competere sui mercati internazionali e spinge molti brand e aziende a delocalizzare la produzione. L’unica soluzione che si profila per le imprese è pagare meno tasse per offrire un salario di maggiore importo ai dipendenti. Solo in questo modo la piccola e media impresa avrebbe l’opportunità di crescere economicamente, assumere nuove risorse e investire».
Anche l’accesso al credito è uno dei nodi principali
«È essenziale. Le piccole e medie aziende vanno messe nelle condizioni ottimali per competere sui mercati globali. Per questo devono essere facilitate nell’accesso al credito, cosa che fino a oggi non è stata fatta. Mi auguro che la riforma del Fondo di garanzia per le PMI entrata in vigore quest’anno vada in questa direzione, anche perché uno dei punti prevede proprio la costituzione di un Comitato consultivo che coinvolga le organizzazioni di rappresentanza delle imprese. E Confindustria Moda è pronta a dare il suo contributo».
Anche se pare essersi aperta una crepa: lo scorso 1° gennaio Sistema Moda Italia è uscita da Confindustria Moda
«Sistema Moda Italia non è più parte della Federazione cui aderiscono Assocalzaturifici, Assopellettieri, Aip (Associazione Italiana Pellicceria) e Unic (Concerie Italiane). Quello che posso dire è che la collaborazione proseguirà su tavoli e servizi comuni. Ma d’ora in poi la Federazione e l’associazione opereranno in piena autonomia in tema di rappresentanza, in particolare verso l’Unione europea, coerentemente con la diversa visione strategica che ha portato alla decisione. E che ha fatto sì che, per decadenza dei requisiti previsti dallo statuto, il presidente Ercole Botto Poala abbia rassegnato le dimissioni. Motivo per cui da tale data ricopro ad interim il ruolo di guida della Federazione».
C’è un’altra rivoluzione in arrivo: il Regolamento sull’Ecodesign
«I prodotti dovranno adeguarsi a nuove regole per migliorare la circolarità, le prestazioni energetiche nella produzione e altri aspetti riguardanti la sostenibilità ambientale. I requisiti in via di definizione sono parecchi e vanno dalla durabilità, riutilizzabilità e riparabilità del prodotto alla presenza di sostanze che inibiscono la circolarità. Tutti questi dati saranno poi registrati nel Passaporto Digitale, un “contenitore di informazioni” pensato per aiutare i consumatori e le imprese a compiere scelte informate nel momento dell’acquisto. Quindi le imprese che rappresentiamo – spesso piccole e familiari – dovranno riuscire ad allineare ai nuovi standard i prodotti e il proprio processo produttivo».
Processo produttivo che andrà del tutto rivisto…
«Sì e Confindustria Moda sta lavorando in questo senso sui temi specifici. Tra i prodotti che verranno regolamentati per primi ci sono i tessili e le calzature. Ma le realizzazioni del mondo della moda sono molto diverse tra loro e non possono adeguarsi tutte ai medesimi standard: la sfida è quindi quella delle sub regolamentazioni per singoli settori, in modo che la norma venga applicata in modo specifico».
Qualche esempio?
«Prendiamo il concetto di durabilità: è vero che si possono fare una serie di test per verificare resistenza all’abrasione e alla trazione, ma è anche vero che sulla durabilità incidono fattori come modo d’uso o tipologia del manufatto. Ci sono calzature con il tacco di ottima qualità, che se però vengono indossate per passeggiate sui sentieri in montagna durano meno che se usate in città. D’altro canto ci sono anche prodotti che vengono tramandati di generazione in generazione, come dimostra il successo che ha il vintage in questo momento storico. E questo sarà un fatto da valutare in parallelo rispetto alla resistenza allo stress della materia prima che lo compone».
Come si preparano le piccole aziende alla transizione digitale?
«Molte hanno già recepito la logica del Passaporto Digitale prima che sia resa obbligatoria per legge, così come hanno compreso il fatto che identificarsi in una filiera produttiva come richiede la norma vale anche come strumento di marketing e di trasparenza. Ma gli aspetti legati alla circolarità e alla gestione di tutto il ciclo di vita sono ben più complessi da gestire. Occorrerà lavorare affinché le nostre piccole imprese abbiano la giusta consapevolezza di queste tematiche».
Quali sono le tempistiche?
«Il Regolamento sull’Ecodesign è stato approvato lo scorso luglio dal Parlamento europeo, e dovrà essere votato nuovamente dal Parlamento europeo e poi ricevere il via libera dal Consiglio. Ma a dicembre ha superato il Trilogue, cioè la fase di dialogo tra Commissione, Consiglio e Parlamento, che hanno trovato un accordo su un testo sicuramente provvisorio ma che stabilisce una data: nel 2030 i prodotti dovranno essere più sostenibili in termini di Ecodesign».
Il fast fashion è destinato a scomparire con l’approvazione del Regolamento?
«Le novità imposte dal Regolamento favoriscono la produzione di lusso Made in Italy, portando inevitabilmente con sé l’abbandono del modello fast fashion. Sappiamo bene che la produzione incontrollata ha un impatto ambientale importante sia in fase di produzione sia di smaltimento. Vietare alcuni processi ormai diffusi nella fabbricazione di massa è un gesto significativo, che comporterà una differente analisi dei confezionamenti e sposterà l’attenzione sull’importanza della produzione responsabile».
C’è anche la direttiva sui Green Claims, che stabilisce l’impegno a contrastare le false dichiarazioni ambientali
«Deve ancora passare per l’approvazione del Consiglio della Ue ed essere pubblicata sulla Gazzetta ufficiale: gli Stati membri avranno poi due anni per recepirla. Il Greenwashing è considerato una pratica commerciale sleale, ma c’è ancora strada da fare in termini di raccordo con le molte altre norme. Oggi c’è anche la direttiva sulla Responsabilizzazione dei Consumatori, approvata il 17 gennaio dal Parlamento europeo e anch’essa in attesa dell’ok del Consiglio e della pubblicazione in Gazzetta, attesa in pochi mesi».
Di cosa si tratta?
«Le nuove norme rafforzeranno i diritti dei consumatori, modificando la direttiva sulle pratiche commerciali sleali e quella sui diritti dei consumatori, adattando entrambe alla transizione verde e all’economia circolare. Il testo stabilisce che servono prove per validare le proprie dichiarazioni, senza però richiedere che queste vengano verificate prima della loro pubblicazione, come previsto invece dalla direttiva Green Claims. È sicuramente un passo avanti per contrastare fantasiose dichiarazioni, ma non è sufficiente».
Sul Tavolo di lavoro con le associazioni della Federazione c’è anche il Regolamento sulla deforestazione (EUDR), che colpisce in particolare la filiera della pelle…
«Solo in Italia è rappresentata da 10mila aziende con 120mila addetti. Il Regolamento relativo alla deforestazione e al degrado forestale è lo strumento attraverso il quale l’Unione Europea intende ridurre il proprio impatto sulla deforestazione nel mondo, una delle cause principali del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità. Ma la pelle non è certo il canale principale e questo regolamento, che entrerà in vigore dal prossimo anno, rischia di avere ripercussioni drammatiche sull’intera filiera perché va a colpire l‘approvvigionamento della materia prima».
La vostra mediazione che funzione ha?
«Noi abbiamo un doppio ruolo: da una parte il costante colloquio con le istituzioni europee di riferimento, dall’altra siamo il punto di ascolto e trasmissione per aziende piccole che spesso, non vedendo una richiesta di Mercato tale da motivare la pronta discesa in campo, la messa a terra delle norme e la gestione dei relativi costi, temporeggiano prima di sintonizzarsi e adeguarsi rispetto a quanto sta succedendo in Europa».
La crisi del Mar Rosso ha possibili effetti sul settore?
«È un fatto drammatico, in primis dal punto di vista umanitario. La vicenda, analizzata dalla prospettiva del manifatturiero moda italiano, cui i nostri settori appartengono, ci fa tornare in mente la fase post Covid-19 nel 2021, segnata dalle strozzature nella logistica e dal rincaro dei costi di gas ed energia elettrica. La crisi c’è, ma non si vede ancora. È troppo presto per avere dati puntuali sulle conseguenze che dovranno affrontare le piccole e medie imprese che noi rappresentiamo e che stanno cercando di capire come agire e reagire. Il rischio, quindi, è quello della stagflazione, fenomeno economico temutissimo perché combina stagnazione, inflazione e disoccupazione».
In che modo vi tutelate?
«Siamo costantemente impegnati a monitorare la situazione e lavoriamo anche nell’ambito del Tavolo della Moda, istituito presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), per essere pronti ad agire con le istituzioni e supportarle nell’assunzione di decisioni che favoriscano la tutela delle aziende che rappresentiamo».
Si possono ipotizzare numeri?
«Per comprendere gli effetti che questa crisi avrà sui prezzi delle merci che viaggiano tramite nave basta guardare il grafico del WCI (World Container Index) elaborato da Drewry, che traccia il costo del trasporto per i container da 40 piedi, l’unità di misura principale. Da inizio dicembre, quando si sono intensificati gli attacchi Houthi, l’andamento dei noli marittimi dall’Asia verso l’Europa e il Mediterraneo si è impennato: i prezzi dei trasporti da Shanghai a Genova sono quasi triplicati (da 1.373 a 5.213 dollari) e hanno fatto quasi altrettanto (da 1.171 a 4.406 dollari) per Rotterdam».
Ci sono ricadute anche sull’export?
«Certo. La moda italiana è desideratissima all’estero in diversi Mercati. Da alcuni report emerge che la spedizione di un container dai porti di Napoli, Genova e Trieste verso Shanghai è più cara del 231% rispetto ai primi di gennaio. Prima, cioè, del bombardamento coordinato da USA e Regno Unito alle postazioni della formazione armata Houti nello Yemen e della conseguente crescita di attacchi militari sul Mar Rosso».
Qual è l’impatto sulla logistica?
«È evidente: per non lasciar passare le navi davanti allo Yemen e far loro percorrere la traiettoria dal Capo di Buona Speranza, i viaggi si allungano di circa 15 giorni con un maggior costo in termini di carburante e polizze assicurative. Le navi, puntando sui porti del Nord Europa invece che su quelli del Mediterraneo, danneggiano ulteriormente la nostra economia. E aumenteranno, di conseguenza, anche i costi energetici: da inizio anno il prezzo del petrolio BRENT segna il +3,04%, e va di concerto con quello del gas sulla Borsa di Amsterdam».
I rischi della crisi del Mar Rosso sono per tutto l’import italiano…
«Il bollettino di gennaio di Banca d’Italia sottolinea come questa crisi rappresenti un rischio per tutta l’importazione italiana. Il trasporto navale in quelle acque riguarda quasi il 16% delle nostre importazioni di beni in valore. Nello specifico della filiera moda, su questa rotta transita un terzo delle importazioni. I beni dalla Cina, secondo Mercato di approvvigionamento per l’Italia dopo la Germania, dalle altre economie dell’Asia orientale e dai Paesi del Golfo Persico esportatori di materie prime energetiche».
Ci sono rischi che riguardano anche altri tipi di produzioni…
«Sì, come Confindustria mettiamo l’accento per esempio sulle schede elettroniche e sugli apparecchi elettrici. Oltre la metà dell’import extra-Ue di questi prodotti viene dalla Cina e sono beni necessari anche per la produzione delle aziende manifatturiere. Proprio Confindustria ha parlato anche delle problematiche generali dell’export dei prodotti, dei nostri macchinari, che raggiungono via mare i Paesi asiatici».
Guardando sempre alla Cina, le loro produzioni di accessori sembrano essere calate e l’export cresce
«Per quanto riguarda questo Paese, nei primi nove mesi del 2023 l’export italiano di calzature, pelletteria, concia e pellicceria ha registrato un valore di 1.512 milioni di euro, con +18,1% sull’analogo periodo del 2022. Sul fronte dell’import, nello stesso periodo e nei due anni esaminati, i dati registrano un -20,1%. Questi dati confermano che il desiderio di Made in Italy rimane molto forte e presente in Cina e anche negli altri Mercati».
Il Made in Italy continua a essere il nostro cavallo di battaglia
«I prodotti Made in Italy del comparto moda accessorio sono molto amati all’Estero per la qualità delle materie prime e dei processi di produzione e l’export rimane un punto di forza, nonostante l’attuale incertezza globale porti a momenti di difficoltà, anche quando non coinvolge Mercati particolarmente strategici. Questo successo è sicuramente frutto della capacità italiana, propria delle nostre imprese, di creare e innovare, produrre cultura e bellezza. Siamo bravi ad attirare l’attenzione e gli acquisti di consumatori nei Paesi più differenti. Questa peculiarità ci distingue dalle altre industrie e dobbiamo impegnarci per presidiare le piazze estere in maniera strutturata e capillare». ©
📸 Credits: Canva
Articolo tratto dal numero del 1° aprile 2024 de il Bollettino. Abbonati!