L’industria manifatturiera italiana è in crescita. Si prevede una stabilizzazione sui 1.160 miliardi di euro nel 2024, a prezzi correnti: +250 miliardi rispetto al 2019, a chiusura di un ciclo post-Covid da record. Sul fronte consumi, che a fine 2023 erano ancora inferiori ai livelli del 2007, le prospettive sono di modesta ripresa, frenata dalla debole dinamica salariale, dai vincoli di reddito e da riduzione e invecchiamento della popolazione. In questo contesto, i settori con maggiori opportunità di sviluppo nel medio periodo saranno quelli legati alla twin transition e ai mercati esteri, a iniziare da: Elettrotecnica (+2,6% medio annuo nel quadriennio 2025-28, in termini di fatturato deflazionato), Meccanica (+2%) ed Elettronica (+1,4%). Positive le prospettive per Largo consumo (+2,3%) e Farmaceutica (+1,9%). È quanto emerge dall’ultimo rapporto Analisi Settori Industriali di Prometeia e Intesa Sanpaolo.
«I consumi, in generale, nei Paesi sviluppati pesano per circa il 50% del PIL. Sono una componente fondamentale per il benessere di una nazione. Quando guardiamo alla loro evoluzione in Italia vediamo che, rispetto agli altri Paesi europei, nonostante ci sia una certa stabilità della spesa assistiamo a un assottigliamento in termini di percentuale del PIL. Al contrario di ciò che avviene in Germania e Francia l’incidenza resta comunque più elevata (58% in Italia e 55% in Spagna), ma va riducendosi nel tempo. Nel caso di una famiglia, l’influenza che hanno i consumi sul paniere complessivo di scelte, è tanto più alta quando c’è meno ricchezza», dice Alessandra Lanza, Senior Partner di Prometeia.
Perché?
«Quando guardiamo all’evoluzione dei salari mediani per dipendente nei quattro Paesi europei presi in esame (Italia, Germania, Francia e Spagna) notiamo subito che la nostra nazione è fanalino di coda. Se facessimo finta che fosse stato di 100 euro il salario medio annuo per dipendente nel 2000, quello del 2022 starebbe al di sotto di questa cifra meramente indicativa. Eppure sono passati oltre 20 anni. Questo vuol dire che i nostri lavoratori dipendenti hanno perso potere d’acquisto e non è una buona notizia. Inoltre, i comportamenti sulla propensione alla spesa sono molto eterogenei, sia tra diverse fasce di reddito, sia tra le differenti classi demografiche. Dobbiamo quindi prestare attenzione alla distribuzione del capitale per nuclei familiari e non solo ai suoi valori mediani».
Qual è la distribuzione per nucleo familiare?
«Le famiglie con tre o più figli sono quelle che hanno una spesa mensile media più elevata, oltre i 3.000 euro al mese. Tra la famiglia di un anziano single e quella con tre o più figli, a livello di spesa media, ballano oltre 1.000 euro al mese. Ma i nuclei che si trovano maggiormente in condizioni di povertà sono o composti da coppie molto giovani, tra i 19 e i 34 anni senza figli, o sono mono-genitoriali. Questo concorre a spiegare il calo demografico che viviamo nel nostro Paese. Oggettivamente chi attualmente si trova nell’età di far figli allo stesso tempo si trova nel bacino dei cittadini che hanno meno capacità di spesa. All’estremo opposto, ci sono famiglie monocomponente sopra i 65 anni».
Ma prendendo in esame altri redditi oltre a quello da lavoro?
«Un fenomeno di cui, secondo me, dobbiamo farci carico e di cui si parla ancora troppo poco è la categoria dei working poor. Coloro che, pur lavorando e avendo un impiego a tempo pieno dignitoso, magari anche con un contratto stabile, sono in estrema difficoltà economica e non arrivano alla “quarta settimana”. L’indice di povertà negli ultimi anni è aumentato di oltre tre punti percentuali. La mancanza di un adeguamento salariale, soprattutto in risposta ai problemi inflazionistici che hanno eroso il potere d’acquisto delle fasce fragili e quindi vulnerabili, ha fatto sì che ci fosse un impoverimento più importante di questa categoria di consumatori».
Qual è più in generale l’andamento dei consumi di beni e servizi in Italia?
«La ricomposizione del paniere di consumo che in tutti i Paesi sviluppati sta andando a vantaggio di uno spostamento da beni a servizi – una tendenza presente in tutte le società del benessere – è meno accentuata in Italia di quanto non sia, per esempio, in Francia. Questo succede perché abbiamo una composizione della formazione dei redditi disponibili sfavorevole rispetto ad altri nazioni. E questo ci penalizza. Tra le classi meno abbienti, quindi anche tra i working poor, c’è una sofferenza dei beni che chiamiamo non durevoli, ad esempio gli alimentari. Ma anche i beni non essenziali, come la moda, sono tra le categorie che soffrono di più. Mentre quelli meno sfavoriti sono legati alla connettività. Nel nostro Paese non assistiamo comunque a uno spostamento dai consumi durevoli ai servizi ad alto valore aggiunto come invece accade nell’Europa nord continentale».
Perché il nostro Paese rimane indietro?
«Sicuramente le cause sono da ricondurre ai redditi, la stagnazione dei salari è la principale motivazione. Poi abbiamo quella che è stata chiamata “glaciazione demografica” un fenomeno che aggrava la situazione. Si somma a ciò anche il tema dell’immigrazione: affinché i migranti acquistino un pattern di consumo simile a quello delle persone di origine italiana ci vogliono almeno una o due generazioni. Tipicamente la loro spesa si concentra sul soddisfare esigenze primari, acquistano l’essenziale e hanno bisogno di comprare beni che non avevano e che servono nella quotidianità dalle lenzuola alle pentole. Un aspetto da evidenziare è il consumo di moda dhe appare più elevato tra loro rispetto alla popolazione residente. Un po’ perché le famiglie di migranti tendono ad avere, almeno inizialmente, un numero maggiore di figli e un po’ perché devono costituirsi uno stock. Poi, nel tempo, prendono le abitudini della popolazione residente e si assimilano ai suoi comportamenti. Lo vediamo soprattutto in Germania e Francia, dove c’è un’immigrazione di più lunga data».
L’incidenza dei consumi da parte della popolazione anziana, d’altra parte, è destinata ad aumentare…
«Il paniere di consumo degli anziani è diverso dalle persone più giovani. In generale è più piccolo, perché hanno tanto più stock da un lato e dall’altro ci sono anche delle opportunità. Tutta la fascia delle “pantere grigie”, quindi gli over 75 attivi e in salute, consumano soprattutto servizi legati allo stare bene fuori casa (cinema, teatro, ricreazione, HoReCa). Questa tendenza ovviamente ha subito una piccola battuta d’arresto durante gli anni del lockdown, ma ha recuperato bene. È evidente che, tuttavia, nonostante ci sia una ricomposizione verso questa categoria merceologica, la torta si stringe. Gli anziani complessivamente consumano di meno, tanto più avanzano nella fascia di età. Nello stesso tempo però, questa fascia conta. Abbiamo una percentuale relativa di anziani più elevata sicuramente della Francia, ma anche della Germania e della Spagna, e da questo punto di vista siamo maggiormente penalizzati».
Su cosa incide nelle categorie di spesa la differenza salariale?
«Le fasce con redditi più bassi comprano quasi solo quelli che chiamiamo i consumi obbligati: l’affitto o il mutuo, tutte le utenze, luce, gas, telefono, connessione Internet e beni alimentari. Soddisfatte le necessità di sopravvivenza, possono pensare a tutto il resto. Ma rimane pochissimo. C’è una riduzione dei consumi non necessari, il primo comparto a soffrirne normalmente è la moda. In questi anni, le cose si sono complicate. Per esempio, con un Welfare che diminuisce, ci si aspetterebbe una spesa per la salute in aumento. E in effetti nelle fasce a reddito più elevato e più anziane della popolazione questo accade. Ma lo stesso non può succedere nella fascia di reddito più basso. Quindi c’è una compressione della spesa per la salute, che vale sia per i farmaci che proprio per i servizi alla salute».
E dal lato alto reddito?
«Una tendenza che si è accentuata post Covid, soddisfatti tutti i beni primari senza problemi, è soprattutto legata ai servizi di leisure, quindi ricreazione, HoReCa e tutto ciò che ha a che fare con lo stare fuori casa. Un trend presente anche nei beni obbligati è la monoporzione al supermercato e il “fresco”, altra categoria merceologica molto usata dalle fasce più abbienti. A seguito dell’inflazione, tuttavia, per sostenere i consumi si comincia a erodere risparmio e questo accade un po’ ovunque. Lo vediamo soprattutto a tutela di consumi che hanno a che fare con il benessere. Nelle fasce più abbienti, non le ricchissime, il consumo di farmaci, di visite private ma anche tanta prevenzione e servizi ancillari al benessere della persona che sono molto diffusi nella fascia delle pantere grigie e sono consumi diventati irrinunciabili, da mantenere finché si può».
Quanto ha influito l’inflazione nella spesa degli italiani?
«Moltissimo, soprattutto sulle fasce reddituali più basse. Il potere d’acquisto si erode per tutti, ma l’inflazione è risultata più elevata per quelle categorie merceologiche più acquistate dalle persone meno abbienti. Il carrello della spesa ha subito maggiori rincari percentuali rispetto a quanto possono aver subito beni durevoli più acquistati dai consumatori più ricchi. Per cui, in termini relativi, la penalizzazione dei consumi delle fasce più deboli è stata più accentuata».
Quali sono i beni o servizi che hanno registrato una crisi?
«I durevoli sicuramente sono stati penalizzati perché hanno un importo medio unitario più elevato. Nel momento in cui c’è un’erosione del potere d’acquisto sono quelli che si riescono a comprare meno. Anche i beni percepiti come non fondamentali, come l’abbigliamento e le calzature, subiscono forti cali nelle vendite. Le fasce più basse hanno addirittura persino alimentari e bevande. Tutta la popolazione con una fascia di reddito medio-bassa si è trovata costretta a dover ridurre anche l’acquisto di farmaci e di cosmetici».
I telefoni sono diventati acquisti centrali negli ultimi trent’anni…
«Non c’è dubbio. Qui dobbiamo distinguere l’acquisto dell’oggetto dall’acquisto del servizio. Sono beni indispensabili, per convenzione non li mettiamo ancora in questa categoria, e lo stesso fa Istat, ma in realtà lo sono. Anche nei Paesi emergenti la diffusione e la penetrazione dei cellulari sono molto alte. Trend che viene mantenuto anche in caso di emigrazione in Italia. È diventato il nuovo metodo di comunicazione, quasi nessuno ha più un telefono fisso a casa. Ormai fanno parte del carrello della spesa».
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Articolo tratto dal numero del 15 luglio 2024 de il Bollettino. Abbonati!