La povertà sanitaria si diffonde a macchia d’olio nel nostro Paese: curarsi è sempre più un lusso. Sono in aumento gli italiani che si indebitano per le spese mediche, al punto che il valore dei prestiti erogati a tale scopo nel 2023 ha superato il miliardo di dollari, il 6,6% in più rispetto al 2022 (Facile.it). Sono 1 milione e 580.000 – il 6,3% del totale – le famiglie che faticano ad affrontare i costi sanitari. Le persone in difficoltà per uscite improvvise o anche pianificate sono invece 9 milioni, mentre le cure risultano insufficienti per addirittura 26 milioni di cittadini.
Servizio Sanitario Nazionale, che succede?
Il Servizio Sanitario Nazionale non riesce più a garantire prestazioni gratuite o economiche per tutti, penalizzando i più deboli. Non a caso, la quota di famiglie che hanno dovuto affrontare un disagio economico negli ultimi anni è aumentata in maniera esponenziale. Infatti, nel 2019 erano il 4,7%, mentre l’anno dopo la percentuale è salita al 5,2%, per poi arrivare al 6,1% nel 2023 (Associazione delle cliniche private).
Quali sono le ragioni? Una delle motivazioni principali riguarda il maggiore accesso degli italiani alla sanità privata, in cerca di tempi più rapidi e una maggiore qualità delle prestazioni. Il 40,2% degli italiani con un reddito tra 15.000 e 30.000 euro e il 34,4% di quelli con uno più basso di 15.000 euro annui hanno dovuto prenotare visite e altre prestazioni mediche in cliniche private per accorciare sensibilmente i tempi. Aumentano anche le spese sanitarie catastrofiche (Organizzazione Mondiale della Sanità”).
Parliamo di quelle che superano il 40% delle capacità economiche delle famiglie, impoverendole. Un fenomeno che interessa il 9,44% dei nuclei familiari italiani, dato che ci posiziona agli ultimi posti in Europa. In parole povere, l’analisi della Sanità italiana mostra un quadro poco rassicurante, mentre l’Italia si prepara a cambiare volto con l’introduzione dell’autonomia differenziata, dopo il via libera della Camera dei Deputati al disegno di legge Calderoli – che non fa altro che attuare la riforma del Titolo V introdotta nel 2001. La Sanità figura tra le 23 materie di cui le Regioni possono richiedere la gestione.
Il caso dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP)
Un ruolo centrale in questa transizione lo avranno i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). Infatti, prima di poter chiedere l’affidamento di alcuni servizi pubblici, come l’Energia e la Sanità appunto, dovrà essere completato il lavoro di analisi e determinazione dei LEP. Un compito che spetta a un’apposita commissione presieduta dal costituzionalista Sabino Cassese. Livelli minimi che dovrebbero valere per tutte le Regioni. Un presupposto non banale, alla luce della situazione attuale.
L’Italia è spaccata in due, anzi in tre, sulla Sanità. Le Regioni vanno a diverse velocità nell’erogazione delle prestazioni, come certificato ad aprile dalla Ragioneria dello Stato. La migrazione sanitaria da Sud a Nord è uno degli effetti più evidenti. Solamente il 55% degli italiani vive in Regioni con risultati soddisfacenti per la tutela della salute. Il restante 45% è spesso costretto a spostarsi per curarsi adeguatamente o pagare strutture private. Mediamente il Centro e il Settentrione riescono a garantire cure migliori ai loro abitanti. Infatti, la maggior parte dei 26 milioni di italiani che ricevono prestazioni non in linea con i potenziali livelli minimi essenziali risiedono nel Meridione. Inoltre, diverse Regioni del Sud offrono servizi fortemente insufficienti (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità). Una valutazione che non si limita alla sfera sanitaria ed economica, ma prende in considerazione anche gli aspetti sociali e di equità dell’assistenza.
Quali sono gli indicatori?
Gli indicatori scelti dai ricercatori del CREA sono: equità, esiti, innovazione, appropriatezza, economico-finanziaria e sociale. Quante Regioni raggiungono la sufficienza, pari almeno al 45% dell’indice di performance (da 0 a 100%)? Gli oltre 13,3 milioni di abitanti di Veneto, Piemonte, Bolzano e Toscana possono dormire sonni tranquilli. Infatti, le Regioni godono dei livelli complessivi di tutela della salute migliori in Italia e hanno un indice di performance superiore del 50% rispetto al livello massimo (60%, 55%, 54% e 53%). Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Valle d’Aosta, Marche, Trentino-Alto Adige e Lombardia (19,3 milioni di abitanti), invece, sono promosse con la sufficienza.
Infatti, ognuna raggiunge livelli di performance che si aggirano tra il 45 e il 49%. Bocciate Sardegna, Campania, Lazio, Umbria, Abruzzo e Puglia (circa 18,9 milioni di abitanti), con percentuali che vanno dal 37 al 44%. Maglia nera, infine, per Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria (circa 7,5 milioni di abitanti). Dall’analisi emerge un netto miglioramento delle prestazioni del Sud negli ultimi 5 anni, tuttavia gli indici non raggiungono ancora un livello adeguato.
Un aiuto arriverà dal sistema di monitoraggio ideato dagli esperti del CREA per tenere traccia degli effetti dell’autonomia differenziata in Sanità in tutte le Regioni, basandosi su un gruppo specifico di indicatori di performance selezionati. Il monitoraggio partirà appena la gestione del servizio verrà concessa alla Regione in questione. Nel frattempo, i ricercatori hanno comparato le prestazioni durante il periodo 2017-2022 sulla base di dieci indicatori scelti dal panel tra gruppi di Regioni.
Chi vince tra Regioni autonome e non
Il confronto riguarda il gruppo di Regioni e Province a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige con Trento e Bolzano), il raggruppamento di zone in Piano di rientro per conti in rosso nella Sanità (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia, Sicilia) e le Regioni che hanno richiesto l’autonomia differenziata nel 2017 (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna). I risultati sono stati poi calcolati sulla base di un Indice Sintetico Ponderato che mostra il miglioramento o il peggioramento delle performance negli anni. Il valore 0 indica una generale compensazione fra i miglioramenti e i peggioramenti regionali; il valore 1 è espressione di un miglioramento per tutte le Regioni del gruppo; -1 mostra invece un peggioramento.
Le Regioni hanno totalizzato un Indicatore sintetico ponderato di 0,38, inferiore rispetto allo 0,40 delle Province a statuto speciale. Questo vuol dire che nel periodo 2017- 2022 la dinamica delle prime è stata peggiore delle seconde. Il secondo confronto fatto dai ricercatori è tra le Regioni in Piano di rientro e le altre. Le prime raggiungono un indice ISP dello 0,44, contro lo 0,37 delle seconde. Quindi, negli anni presi in esame le prestazioni di quelle con i conti in rosso sono migliorate di più. Infine, le Regioni che godono già di una forma di autonomia differenziata hanno registrato un indice ISP pari a 0,36, contro lo 0,40 di tutte le altre.
Gli altri problemi
C’è un altro elemento che non gioca a favore della Salute: il rinvio dal 1 aprile 2024 al 1 gennaio 2025 dell’entrata in vigore del Nuovo Nomenclatore tariffario per specialistica ambulatoriale e protesica. Un testo atteso da anni, che introdurrà i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale ai cittadini gratuitamente o pagando un ticket, ormai obsolete. Una proroga che non ha sorpreso gli esperti, ma ha attirato diverse critiche nella società civile e nel panorama politico nazionale e regionale. Infatti, il rischio è di sprecare centinaia di milioni di euro che potrebbero essere utilizzati per accesso a diagnosi, terapie avanzate, device per persone in stato di fragilità, etc. Non a caso, il rinvio ha ricevuto anche la bocciatura della Ragioneria dello Stato, poiché l’aggiornamento della copertura è già costato 3,4 miliardi di euro. L’intesa è stata finalmente raggiunta in Conferenza Stato-Regioni, ma ora bisognerà attendere ancora alcuni mesi per poter accedere ai Nuovi LEA. ©
Articolo tratto dal numero del 1 settembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!
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