sabato, 7 Dicembre 2024

Alberto Brambilla, presidente Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali: «Il futuro delle pensioni? Quota 102 e fondi di solidarietà»

DiRedazione

1 Ottobre 2020

Non con i bonus, ma con una migliore gestione delle risorse. È così che per Alberto Brambilla, docente universitario e Presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, il nostro sistema di welfare potrà rispondere agli interrogativi del futuro. Anche dopo il coronavirus. «Come Stato mobilitiamo già cifre ingenti. Per assistenza, salute e pensioni spendiamo quasi il 57% delle entrate fiscali e contributive. Il punto non è l’invecchiamento della popolazione, ma riuscire a razionalizzare la spesa facendo in modo che i soldi arrivino a chi ne ha bisogno. Purtroppo c’è chi se ne approfitta e ogni anno cancelliamo decine di migliaia di falsi invalidi. Dopo neanche 12 mesi dall’istituzione del reddito di cittadinanza, abbiamo rimosso centomila beneficiari».

L’attenzione è anche alla riforma delle pensioni. Dopo la Fornero del 2011 e la scadenza a dicembre 2021 della cosiddetta quota 100, occorre una revisione. Che dovrebbe preferibilmente essere l’ultima. Essendo il sistema basato sul metodo di calcolo contributivo, bisognerebbe non mutare le regole del gioco a ogni cambio di governo».

In assenza di provvedimenti, dal 2022 il rischio è di uno scalone di oltre cinque anni. Professore, qual è il quadro attuale?

«La riforma Fornero ha creato una cesura tra chi ha iniziato a lavorare prima e chi dopo il 1 gennaio 1996. Le regole per questi due blocchi, il secondo dei quali comprende i contributivi puri, sono diverse. I giovani sono penalizzati sia sui requisiti di accesso sia sulla dimensione della pensione e non beneficiano di prestazioni sociali e integrazione al minimo».

Qual è la prima cosa da fare dunque?

«Di certo unificare le platee. Requisiti di età, anzianità contributiva e percentuale di pensione devono essere uguali per contributivi, misti e retributivi. Così, se i più giovani non arrivassero alla minima, anche per loro potrà intervenire la fiscalità generale. Il nostro del resto rimane un sistema a ripartizione, espressione di un grande patto tra generazioni».

E per ottenere una migliore flessibilità in uscita che cosa bisogna fare?

«Propongo quota 102: 64 anni di età (adeguati all’aspettativa di vita) e 38 di contributi per l’uscita anticipata. Oltre a una seconda strada che preveda 42 anni e qualche mese di anzianità contributiva per gli uomini e 41 anni e qualche mese per le donne. Con l’uscita tradizionale fissata a 67 anni. Resta da definire il tema dell’Ape (Anticipo Pensionistico Sociale) che è a carico della fiscalità generale. E che non sappiamo se potremo permetterci in futuro. Per le persone che vi si rivolgono potremmo pensare all’estensione ai fondi di solidarietà – esistono ad esempio per l’industria, l’artigianato, il commercio, i servizi e il turismo, la farmaceutica – ai quali accedere con 62 anni di età e 35 di contributi. Le imprese troverebbero più vantaggioso inserire il personale all’interno di questi fondi. Com’è già successo in campo bancario e assicurativo. E consentirebbero – in questo modo – di non usare denaro pubblico».

Al momento il sistema è in equilibrio?

«Sì e, anzi, al netto delle imposte sarebbe addirittura in utile. Ecco perché, senza esagerare, ci sono margini per una maggiore flessibilità. Un problema enorme è semmai la spesa assistenziale: quella previdenziale netta non arriva a 175 miliardi di euro, per l’assistenza ne spendiamo quasi 115 interamente a carico della fiscalità generale. Il punto è che ogni appuntamento elettorale vede le diverse forze in campo promettere di tutto per ottenere consenso. Invece dovremmo creare una banca dati sull’assistenza per sapere a chi diamo questi soldi e perché».

Come ridurre la spesa in un Paese che invecchia come il nostro?

«L’invecchiamento della popolazione è in linea con i limiti dello sviluppo. Dobbiamo immaginare una società che non ha una decrescita infelice, ma che si ristruttura attorno alla silver economy. Gli ultra sessantacinquenni oggi sono il 24% della popolazione. Saranno dopodomani il 27% e un terzo del totale tra 10 anni. Dobbiamo spendere le nostre risorse per una sanità che funzioni e consentire un invecchiamento attivo. E in secondo luogo fare il contrario di ciò che fa quota 100, ossia far sì che anche chi va in pensione continui a essere utile alla collettività».

Qual è stato l’impatto dell’emergenza sanitaria?

«A marzo avevamo stimato una perdita del Pil dell’11%, un aumento del debito pubblico di oltre 120 miliardi e un rapporto debito/Pil sul 154%. Non sapevamo che l’Europa avrebbe stanziato fondi e prolungato il quantitative easing. Ora siamo in condizioni di assorbire lo shock nell’arco di un paio d’anni. Se soltanto sbloccassimo i 70 miliardi per i cantieri e le operazioni dei 7.900 Comuni che non possono partire… Secondo Ance, si libererebbero diciassette mila posti di lavoro e tre miliardi di indotto per ogni miliardo speso».

Quindi le risorse ci sono?

«Abbiamo in pancia 70 miliardi, altri 209 arrivano dall’Europa in parte a fondo perduto e 36 dal Mes. Purtroppo siamo il Paese dei bonus, incentiviamo elusione ed evasione. Riformare ciò è fondamentale. Il reddito di cittadinanza è ad esempio la cosa più sbagliata. Dobbiamo invecchiare bene e lavorare per ridurre la povertà. Per l’assistenza sociale siamo passati dai 73 miliardi del 2008 ai 115 del 2019. Con la spesa sostenuta finora avremmo potuto debellarla e invece è più che raddoppiata. Questo perché siamo incapaci di fare controlli e privi di una banca dati su ciò che spendiamo».