giovedì, 18 Aprile 2024

«Next Generation EU: l’Italia è a rischio», il commento di Silvia Merler, Head of ESG Working Group and Head of Research Algebris Policy Forum

Il Recovery Fund rischia di saltare e con esso anche i 209 miliardi (127 di prestiti e 82 di sussidi) destinati all’Italia. Soldi vitali e che in parte sono stati già inseriti nella legge di Bilancio 2021 in qualità di anticipo. A bloccare il Next Generation EU è il veto posto dai Paesi “frugali”. Significa che i soldi non arriveranno? «Il punto più problematico in questo momento – spiega Silvia Merler, Head of ESG Working Group and Head of Research Algebris Policy Forum – e che potrebbe creare ritardi nell’attuazione, è lo scontro con Polonia e Ungheria sull’idea che d’ora in avanti l’erogazione dei fondi europei (tutti, non solo quelli del pacchetto Next Generation) sia legata anche a una valutazione di eventuali violazioni dello stato di diritto che possano creare rischi per il bilancio europeo.
È un tema che il Consiglio Europeo aveva toccato solo in termini molto vaghi, nell’accordo di luglio, e che sapevamo sarebbe emerso con forza nelle negoziazioni con il Parlamento Europeo quest’autunno. Il veto di Polonia e Ungheria, due Paesi che negli ultimi anni sono stati sotto i riflettori per il difficile rapporto con i valori fondanti della UE, dimostra l’urgenza di discutere di questo tema».


Ma i famosi “falchi” che chiedono di sorvegliare l’Italia su come utilizzerà la sua parte di fondi hanno le loro ragioni?
«Sì. Il nostro paese è oggi il fulcro di un dilemma economico e politico per Bruxelles. Da un lato, a causa delle condizioni macroeconomiche preesistenti al Covid-19, l’Italia è il Paese che oggi ha più bisogno della solidarietà fiscale Ue. Dall’altro, trovare un accordo sulla solidarietà si è rivelato particolarmente difficile proprio perché ad averne più bisogno è l’Italia. Il fatto che noi incarniamo oggi un chiaro caso di mancato aggiustamento economico, ci priva del capitale politico necessario per avanzare rivendicazioni forti in tema di solidarietà fiscale.
Il trasferimento di cui il nostro Paese beneficerà nel contesto di Next Generation EU è fondamentalmente un atto di fede da parte dei nostri partner europei in quello che oggi rischia di diventare l’anello più debole dell’Uem – o forse lo è già. Dal nostro punto di vista, crea la responsabilità di assicurarci che la fiducia non sia stata mal riposta. Il rischio non sarebbe solo quello di sprecare fondi europei – come già ampiamente da noi fatto in passato con i fondi strutturali. Ma di arrestare sul nascere il primo timido passo in direzione di un’unione fiscale e di cristallizzare il nostro isolamento».
In Europa con il piano di aiuti chi ci guadagna e chi ci perde?
«Italia e Spagna saranno i principali beneficiari delle sovvenzioni nel pacchetto Next Generation EU, ricevendo rispettivamente 80 e 78 miliardi di fondi che non verranno contati come debito pubblico. Se assumiamo che ciascun Paese sia tenuto a rimborsare in base alla propria quota nel bilancio dell’Ue – cosa ancora non certa perché il rimborso finale dipenderà soprattutto dal raggiungimento o meno di un accordo sull’aumento delle risorse proprie dell’Ue, che ridurrebbe il contributo nazionale – da noi arriverà un trasferimento fiscale netto di 30 miliardi.
Per mettere le cifre in prospettiva, è come se ci venissero restituiti circa 7 anni di contributi netti versati dall’Italia nel bilancio dell’Ue. Inoltre, noi siamo l’unico Paese contribuente netto del bilancio europeo a essere un beneficiario netto delle sovvenzioni di Next Generation Eu – ed è proprio nel cambio di segno della nostra posizione che si vede, a mio avviso, il grado di solidarietà fiscale implicito nel pacchetto Next Generation EU e la sua portata storica».
Il piano dell’Italia per utilizzare tutti quei soldi, va nella direzione corretta?
«Il governo italiano non ha ancora rilasciato una bozza ufficiale del Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza, ma i diversi documenti non ufficiali sono stati resi pubblici dai giornali, sono interessanti da valutare, in attesa di una pubblicazione ufficiale. L’aspetto più problematico è nel procedimento adottato: i progetti infatti sono stati proposti dai Ministeri secondo un processo bottom-up e il rischio è quello di scatenare un’orda di programmi relativamente piccoli e incoerenti, senza una visione globale sottostante – che invece è fondamentale affinché questo sia un piano non solo per la ripresa ma anche, come dice il nome, per la resilienza»
Gli aiuti economici europei stanno seguendo diversi destini: Sure, il prestito della Commissione europea per finanziare i sussidi al mercato del lavoro (come la cassa integrazione) è stato richiesto da 17 paesi europei; il Mes la linea di credito dedicata alla pandemia, invece non è stata chiesta da nessuno Stato che ne fa parte. Perché?
«Il Mes è nato per rispondere a una crisi – quella del debito sovrano nell’Eurozona – che è completamente diversa da quella che viviamo oggi. Si trattava infatti di una crisi asimmetrica (che colpì in maniera severa pochi Paesi lasciando completamente intatti altri) e le cui origini erano profondamente radicate nella gestione della politica economica nazionale. Per questo, gli strumenti originari in mano al Mes per prestare a Paesi in difficoltà sono tutti soggetti a una chiara e stringente condizionalità macroeconomica – che sarebbe ingiustificata invece nel contesto della crisi da Covid-19. Proprio per questo, è stato creato un nuovo strumento – la linea di credito Pandemic Crisis Support – che è completamente diverso da quelli tradizionali. Questa differenza però non sembra essere abbastanza chiara per superare la percezione che prendere a prestito dal Mes costitutisca per i Paesi un marchio d’infamia»
Quali le differenze tra i due?
«Il Pandemic Crisis Support del Mes è una linea di credito da cui ciascun Paese può richiedere fino al 2% del PIL (per l’Italia circa 36 miliardi) e che, a differenza delle linee di credito tradizionali, non è soggetto ad alcuna condizionalità macroeconomica generale né al regime UE di sorveglianza rafforzata. L’unica condizione è sull’utilizzo dei fondi, che possono essere usati solo per coprire costi sanitari diretti e indiretti. In questo vincolo di utilizzo, il Pandemic Crisis Support è molto vicino al Sure – che pure può essere utilizzato solo per finanziare schemi di cassa integrazione o simili».
Molti dicono che non andrebbe preso. Lei è di parere diverso?
«Penso che all’Italia converrebbe per due motivi. Primo, se guardiamo alla composizione dei progetti del nostro National Recovery and Resilience Plan (almeno quanto pubblicato dalla stampa), circa il 15% di tutti i progetti presentati nella lista preliminare sono attribuiti al Ministero della Salute – e sarebbero in tutta probabilità stati eligibili per un finanziamento alternativo tramite il Mes, cosa che avrebbe permesso di liberare ulteriori risorse di Next Generation EU da investire invece in altre aree chiave come istruzione e lavoro. Secondo, molti di coloro che si oppongono all’utilizzo del Mes ricordano che oggi l’Italia può prendere a prestito a tassi storicamente bassi.
Questo è vero, anche se il tasso che noi paghiamo per emettere il nostro debito è comunque ancora sufficientemente più alto di quello che pagheremmo prendendo a prestito dal Mes per coprire le spese sanitarie. Ma un altro aspetto di cui si discute meno è quello della relazione tra la natura (pubblica o privata) di chi detiene il debito e la stabilità del costo di finanziamento: nel lungo periodo spostare una parte del nostro debito da detentori privati (il mercato) a detentori pubblici (l’UE con il Sure e il Mes con il Pandemic Crisis Support) aiuterebbe a mantenere il costo del debito basso in maniera più stabile».
Se l’Italia non riuscirà a crescere con i fondi del Next Generation EU rischia di essere lasciata indietro?
«Già prima del Covid-19 rischiava di rimanere imprigionata in un circolo vizioso di stagnazione economica, emigrazione, elevata disoccupazione, povertà e disuguaglianza. Le conseguenze sociali di questo “eccezionalismo” economico sono profonde e quelle politiche dirompenti – come evidente nel successo eccezionale di partiti e movimenti populisti ed euroscettici negli ultimi anni. Paesi come la Spagna, il Portogallo o la Grecia si trovavano in una posizione macroeconomica molto peggiore di quella italiana nel 2010. Tramite una dolorosa svalutazione reale e una serie di riforme strutturali che hanno stravolto il loro modello economico, hanno riguadagnato competitività esterna e – cosa fondamentale – sono tornati a crescere dal 2014. Ciò ha permesso di ridurre progressivamente la disoccupazione e di mettere il debito pubblico su una traiettoria discendente. Per l’Italia l’aggiustamento forzato non c’è stato e la crisi è stata un’occasione mancata per mettere autonomamente mano a debolezze strutturali note da lunga data».

Il suo ultimo libro “La pecora nera” analizza le economie degli Stati mediterranei sottolineando come siano molto più simili a quelle del nord Europa di quanto si creda. Ma c’è un’eccezione: la pecora nera dell’Eurozona non cambia mai: l’Italia. Perché?
«Diciamo che storicamente un leitmotiv dell’approccio italiano alle relazioni di economia politica internazionale è l’idea che i nostri creditori non possano permettersi di farci fallire. È un tema che, come molti ricorderanno, ha dominato la narrativa della crisi del 2011-2012. Ma nel 2020, siamo ancora sicuri che sia così? Il libro è un tentativo di stimolare la consapevolezza che questo approccio al ruolo dell’Italia in Europa oggi non è più sostenibile. Serve un cambio di prospettiva radicale, che passa inevitabilmente dall’ammettere che l’Italia oggi è diventata un’idiosincrasia economica e politica – una pecora nera, appunto – nell’Eurozona. La mia speranza nello scrivere il libro è che possa servire a mettere in luce chiaramente gli aspetti più problematici di questo triste eccezionalismo che oggi caratterizza il nostro Paese e le priorità che dobbiamo darci per superarlo».