giovedì, 28 Marzo 2024

«Nel Mediterraneo la Cina fa affari per più di 700 miliardi», dice Gian Enzo Duci di Conftrasporto

Fronte caldo dello scontro economico tra Usa e Cina, il Mediterraneo rappresenta meno dell’1,5% dei mari del pianeta, ma sulle sue acque si muove circa il 20% dei traffici marittimi mondiali. «Da qui, infatti, passa buona parte dei 751 miliardi di interscambio che il Paese asiatico ha con quelli della UE e del MENA (Middle East and North Africa)», dice il Professor Gian Enzo Duci, vicepresidente di Conftrasporto (Confcommercio). Le coste sono popolate da oltre 450 milioni di persone che rappresentano uno dei mercati presenti e prospettici più interessanti a livello globale stanti le percentuali di crescita delle economie della sponda Sud e la consolidata ricchezza di quella Nord.
È per questo motivo che le compagnie controllate dal Governo Popolare Cinese hanno messo in atto una politica di investimento per gestire terminal portuali in tutta la zona?
«Certo. Se l’acquisizione da parte di COSCO (la principale compagnia marittima cinese) di parte della concessione del Pireo, dal 2019 diventato primo porto Mediterraneo per contenitori movimentati (5.65 milioni di TEU), è il caso più noto e discusso, anche Turchia (Ambarli), Israele (Haifa), Egitto (Suez), Spagna (Algeciras) e Italia (Vado Ligure) hanno intrapreso iniziative simili».


Di quali iniziative parliamo?
«Per esempio a Vado Ligure, Cosco Shipping Ports con il 40% e Quingdao Port International con il 9,9% (per un investimento di circa 90 milioni di Euro) sono soci di Maersk nella gestione del container terminal più moderno d’Italia, inaugurato nel dicembre 2019».
Perché la Cina ha bisogno del porto del Pireo?
«I cinesi hanno scelto il Porto del Pireo quale hub di transhipment (a un certo punto si era palesato lo stesso interesse per Taranto, poi abbandonato per la soluzione greca). Da dove smistare i traffici per tutto il Mediterraneo».
A Trieste, invece, sono entrati i tedeschi
«Molti leggono il recente ingresso dei tedeschi di Hamburger Hafen und Logistik (HHLA) nella Piattaforma Logistica del porto di Trieste (PLT), in alternativa ai cinesi di China Merchants Port Holdings rimasti in predicato di assumerne il controllo per almeno un anno, come una operazione guidata e benedetta dagli Stati Uniti per fermare la penetrazione dell’Europa da parte della Cina. Se forse si è troppo enfatizzato sulla valenza geopolitica di una operazione che ha un razionale economico più forte nell’apertura di uno sbocco a sud per il principale operatore portuale amburghese, è comunque risultato evidente che l’Italia e il suo settore logistico in primis potrebbero capitalizzare importanti vantaggi qualora riuscissero a giocare le proprie carte sul tavolo della disfida tra i due giganti globali».
Chi e quanto ci rimette chi rimane fuori da queste acquisizioni?
«Tutti i più grandi operatori mondiali del settore container (i danesi di Maersk, gli svizzeri di MSC, i francesi di CMA CGM, oltre ovviamente ai cinesi di COSCO) stanno integrando verticalmente la catena del trasporto unendo sotto lo stesso controllo quello via mare, le attività terminalistiche e quello terrestre sia su gomma sia su ferro. Almeno in questo settore, chi rimane fuori rischia di venire marginalizzato dai principali traffici ad alto valore aggiunto».
Dal 2009 al 2019 (figura 1) i porti italiani hanno perso in Mediterraneo quote di traffico molto consistenti, a vantaggio di Grecia e Marocco, che a Tanger Med ha fatto della logistica e della integrazione fra mare, distribuzione e produzione in regimi di vantaggio doganale, un vero e proprio valore aggiunto…
«Ma anche a favore del Nord Europa che, ancora una volta non casualmente, ha investito in modo massiccio sulle infrastrutture logistiche e ha favorito la nascita di “campioni nazionali” in grado di penetrare anche su altri mercati, compreso quello italiano, che denunciano una struttura debole e quindi aggredibile dalla concorrenza».


Dopo il cataclisma mondiale determinato dalla pandemia, questi trend troveranno conferma anche nel 2021 o assisteremo a cambiamenti?
«Fattori di geoeconomia e di assetto del commercio mondiale, inclusi quelli riconducibili alla fase di riflusso della globalizzazione, stanno spostando in modo significativo gli assi di gravitazione dell’interscambio mondiale via mare (per esempio la nuova geografia del petrolio con gli Stati Uniti che per la prima volta dal 1859 perderanno nel 2021 il ruolo di primo paese produttore di raffinati al mondo a favore della Cina, o l’India che ha annunciato il raddoppio della propria capacità di raffinazione entro il 2030)».
Esistono opportunità per l’Italia?
«Assolutamente sì, ma il rischio per il nostro Paese è che queste opportunità non trovino sbocchi concreti ed efficaci a causa della struttura stessa della governance portuale, sulla quale incidono in modo pesante una burocratizzazione eccessiva oltre a ritardi infrastrutturali sempre più evidenti: si pensi che i soli organi di governo dei porti italiani (le Autorità di Sistema Portuale) hanno complessivamente in pancia quasi un miliardo e mezzo di residui attivi, in pratica, fondi già stanziati che non si riescono a spendere».
Com’è lo stato di salute dei porti italiani, che traffico hanno movimentato nel 2020?
«Nei primi sei mesi dell’anno, sono stati movimentate circa 200 milioni di tonnellate di merci, con una riduzione del 12% rispetto al 2019. Su base annua il calo potrebbe attestarsi attorno al 15%. Chi ha patito di più è però il settore passeggeri, con le crociere che hanno visto quasi azzerato un traffico che nel 2019 aveva sfiorato i 12 milioni di ospiti».
All’orizzonte, non si sa quanto vicino o lontano, si profila negli equilibri marittimi europei, anche un fattore climatico destinato a impattare in modo crescente sull’assetto logistico
«Assolutamente sì. La portata d’acqua dei principali fiumi attraverso i quali scorre il traffico di merci e container, tra i porti del Nord e il Centro Europa (Baviera e Svizzera in primis) è in costante discesa. Il vantaggio competitivo di avere a disposizione vie navigabili verso il cuore dell’Europa da parte dei porti del Nord ha da sempre limitato il mercato della portualità italiana (Trieste esclusa) al di qua delle Alpi. Se in futuro questo scenario dovesse davvero cambiare, l’Italia ha la necessità di farsi trovare pronta con un sistema interconnesso porti-ferrovie che, al momento, non sembra ancora all’altezza».
Ma se questa prospettiva è comunque di medio e lungo periodo, un fattore scatenante per il rilancio del Mediterraneo si è già palesato con i cosiddetti Accordi di Abramo
«Le intese diplomatiche fra Emirati e Israele destinate a estendere questa “pacificazione a forte connotazione economica” a tutto il panorama dei Paesi sunniti, si sta delineando alla stregua della nascita di un vero e proprio nuovo continente, dotato di risorse energetiche, finanza (è in accelerazione il processo di spostamento di importanti player finanziari dalla Gran Bretagna agli Emirati), high tech ed economia innovativa espressa da Israele. Un processo di pacificazione che ogni giorno tende ad allargarsi a nuovi Paesi arabi pronti, come accaduto ultimo in ordine di tempo con il Marocco, a intessere rapporti di collaborazione con Israele e a mettere a fattore comune di un vero e proprio new player economico, potenzialità eccezionali di crescita».
E questo, potenzialmente, porterebbe all’Italia opportunità straordinarie
«Un continente che si affaccia sul Mediterraneo è destinato a fornire grandissime possibilità, come quelle connesse con la ricostruzione di Paesi come Libano, Siria e Iraq, verso i quali – come sottolineato da una recente ricerca del think tank BlueMonitorLab – si potrebbe convogliare una porzione consistente della produzione di acciaio, oltre che di impiantistica. Insomma, la sfida è già in atto e certo l’Italia non si può più permettere il lusso di regalare ad altri Paesi un quarto del proprio surplus commerciale che è letteralmente divorato ogni anno dalla “bolletta logistica”, ovvero dall’acquisto di servizi di trasporto dell’import-export nazionale messi in campo da sistemi-Paese concorrenti».