venerdì, 8 Novembre 2024

CAVIALE: L’ITALIA AL SECONDO POSTO AL MONDO PER PRODUZIONE

Se vi trovate all’estero e mangiate caviale, quasi certamente sarà di origine italiana. A livello mondiale, infatti, il nostro Paese occupa il secondo gradino del podio per produzione, preceduto solo dalla Cina. Nel 2020 sono state 50 le tonnellate made in Italy e il valore delle pregiate uova di storione va dai 400 euro ai 2 mila euro al chilo. Il settore dell’acquacoltura, nel Belpaese, è in continua crescita. Ma su burocrazia e fiscalità bisogna ancora lavorare molto. «Chiediamo di semplificare una serie di passaggi, considerato che il comparto è una realtà particolare, con varie e specifiche esigenze normative e autorizzative», dice Andrea Fabris, direttore dell’Associazione Piscicoltori Italiani. «Avere uno sportello unico per le attività di acquacoltura sarebbe un grosso passo in avanti. È una delle cose spesso richiamata dall’Unione europea sulle linee guida e orientamenti strategici per l’acquacoltura sostenibile».

In quali Paesi esportiamo il caviale?

«Europa dell’Est, Germania, Regno Unito, Francia, Russia, Usa, Brasile, non direttamente in Cina ma, Singapore e Hong Kong, che diventano un ponte verso l’Estremo Oriente».

Come sta uscendo l’acquacoltura italiana dalla pandemia?

«Sottolineo, innanzitutto, che il settore rappresenta l’11% di tutta l’Unione Europea. La pandemia ha aumentato il valore dell’origine del nostro prodotto e il consumatore su questo tema è molto più attento. Il pesce d’acqua dolce, rispetto a quello marino, ha avuto una forte flessione. Nel nostro Paese viene prodotto solo un quinto di spigole e orate rispetto a quanto ne abbiamo bisogno. È evidente che, nel periodo pandemico, con il blocco delle movimentazioni con l’estero, si è avuta una flessione negativa. Adesso, la fetta di mercato si è ri-consolidata».

Nel 2018, in tema import, il 21% del pesce proveniva dalla Spagna, il 6% dai Paesi Bassi e la stessa percentuale vale per Svezia e Danimarca. In tema export, il 15% andava in Spagna, il 14% in Germania, il 9% in Francia e il 6% in Austria. Che ruolo può avere l’Italia nei prossimi anni?

«Noi italiani siamo dei forti importatori di prodotto ittico. Per quanto riguarda il consumo di spigole e orate, siamo il più grande mercato al mondo. Ma riusciamo a produrre circa il 20-21% di orate e spigole di cui necessita il nostro mercato. Esportiamo il 30/35% di trote che produciamo, principalmente in Germania, Austria, Polonia e Romania. Siamo anche dei forti importatori di salmone. In generale, il 65-70% del prodotto ittico che consumiamo viene da fuori. Di questo, la metà proviene dall’acquacoltura».

Quanto è importante il settore dal punto di vista occupazionale?

«Sicuramente molto in termini di addetti in allevamento e nella filiera. Ci sono diverse possibilità, per esempio, anche nella produzione delle reti e dei mangimi per gli allevamenti, nella trasformazione, nel trasporto e nel packaging. Dai dati dell’Unione Europea è emerso che nella filiera dell’acquacoltura un addetto diretto ne coinvolge tre in modo indiretto».

Ci sono differenze tra le imprese italiane e quelle degli altri Stati europei?

«In Norvegia e nel Regno Unito sono presenti anche grosse realtà, soprattutto in relazione all’allevamento del salmone. Nel resto del continente europeo (compresa l’Italia) la percentuale media delle micro imprese si aggira intorno il 75-80%».

Le risorse stanziate nel PNRR basteranno?

«Quello che viene previsto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza per pesca e acquacoltura porta soprattutto a sviluppare i contratti di filiera; è un aspetto sicuramente Produciamo circa il 20-21% di orate e spigole per il nostro mercato e portiamo fuori il 30/35% di trote interessante. Bisogna tenere conto, però, che il tessuto connettivo dell’acquacoltura è costituito da micro imprese (di queste, il 75% ha meno di dieci impiegati). Quindi, non stiamo parlando di realtà con elevate capacità di investimento, si dovrà creare una sorta di rete tra le aziende che possano usufruire di queste risorse. Un altro tema importante è quello dell’efficientamento energetico. Bisogna capire come raggiungere le piccole attività, un punto che andrebbe sviluppato coinvolgendo maggiormente le associazioni di categoria».

L’UE è il quinto maggiore produttore mondiale di prodotti della pesca e dell’acquacoltura. Come si sta muovendo l’Europa in questi anni?

«L’Unione europea lo scorso luglio ha emesso degli orientamenti strategici per lo sviluppo dell’acquacoltura sostenibile entro il 2030. Quindi, dal punto di vista politico-teorico, si investe molto. Bisogna risolvere dei problemi culturali e di semplificazione amministrativo-burocratica».

Che ruolo può avere l’ittiturismo nel futuro?

«Recarsi negli allevamenti e fare attività ricreative, quali la pesca sportiva, può dare molto, da diversi punti di vista. Secondo una nostra indagine, esistono in Italia più di 600 laghetti di pesca sportiva (nei quali vengono immesse trote o carpe), più o meno connessi all’attività di allevamento. Oltre a questi ci sono fattorie didattiche e ristori agrituristici. Deve essere valorizzata anche l’attività del turismo culturale nelle zone di laguna, dove sono presenti allevamenti, presidi ambientali e dove c’è anche una forte tradizione. Stiamo parlando di luoghi che, se fossero lasciati a loro stessi,
andrebbero incontro al degrado. Grazie alle attività turistiche si possono avere il mantenimento e la cura della natura circostante».

Nel 2017, il 45% della produzione è stato allevato in acque marine, il 28% in acque salmastre e il 27% in acqua dolce. Quanto e come incidono i cambiamenti climatici?

«Possono condizionare anche l’attività di acquacoltura che svolge molto spesso il ruolo di sentinella ambientale rilevando prima di molte altre attività antropiche i mutamenti. Le imprese del settore si stanno attrezzando con l’applicazione tecnologie all’avanguardia, sia negli impianti a mare che a terra, utilizzando sapientemente innovazioni applicate alla sensoristica, ai mezzi di previsione e alla modellistica». ©

Mario Catalano

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