sabato, 7 Dicembre 2024

Mamme e lavoro: ecco perché guadagnano meno dei papà

Mamme

Il divario di stipendi tra uomini e donne è sempre più incolmabile. A 30 anni il salario delle ragazze va “in pensione”. Se da una parte quello degli uomini continua a salire, quello delle donne si ferma, come se il vertice fosse già stato raggiunto. A 11 anni dalla maturità, il reddito medio mensile dei diplomati è di 2.076 euro, 530 euro in più rispetto a quello delle diplomate (1.546 euro). Tra le spiegazioni, la diversa tipologia di diploma: gli uomini scelgono un percorso tecnico-professionale che facilita la transizione scuola-lavoro, ottenendo successivamente contratti più stabili e salari migliori. Inoltre, l’impiego delle lavoratrici spesso è part-time (il 28%, a fronte del 12% degli uomini). Per molte donne, nel nostro Paese la maternità rappresenta uno spartiacque: diventare mamma o continuare a lavorare? In Italia, il fenomeno del motherhood penalty (o child penalty gap) si sta sempre più diffondendo. Secondo un rapporto di Save the Children, in media la percentuale delle madri lavoratrici è inferiore di 30 punti percentuali rispetto ai papà lavoratori (nel 2021 rispettivamente 57,4% contro l’88,2%). Ma quali sono le cause? Carenza di servizi, pregiudizi sul luogo di lavoro e difficoltà strutturali di un contesto sociale che non supporta sufficientemente le mamme.

Al Nord 7 madri su 10 lavorano, al Sud 6 su 10 rimangono a casa

Analizzando la questione da un punto di vista geografico, il divario aumenta. Nel 2021 solo il 37,4% delle mamme del Mezzogiorno lavora, contro il 70,2% di quelle del Settentrione. Anche la presenza dei figli sembra essere un “ostacolo”. Maggiore è il numero dei minorenni, più sale la percentuale di donne che non è occupata. Quelle con almeno un minore sono il 58%, mentre sono il 54,5% le mamme con due o più figli under18. Le percentuali dei papà si attestano rispettivamente all’88,8% e all’89,1%.

Contratti “più fragili”

La ripresa occupazionale del 2021 presenta profonde differenze di genere. Delle 267.775 trasformazioni a tempo indeterminato (da tempo determinato, stagionale, apprendistato, somministrazione e intermittente), solo 2 su 5 riguarda le donne. Ma c’è di più. Su un totale di 1,3 milioni di nuovi contratti “rosa” attivati nel primo semestre dello scorso anno, la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato; seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo al quarto posto, l’indeterminato (14,5%). Situazione differente per gli uomini. Sugli oltre 2 milioni di contratti attivati, quasi la metà (il 44,4%) è a tempo determinato, seguito dall’indeterminato (il 18%, quasi un’attivazione su cinque).

Salario sistematicamente inferiore agli uomini

Ma le ingiustizie sociali si allargano anche alle retribuzioni. Alcuni ricercatori hanno condotto uno studio su un campione di diplomati e diplomate nati nel 1988 e 1989, e ricostruito i redditi mensili da lavoro (dipendente e autonomo), seguendo i percorsi professionali per gli undici anni successivi al diploma. Cosa è emerso? Il reddito mensile lordo medio stimato per i ragazzi nell’anno della maturità era di 557 euro, mentre per le ragazze 415. Nell’anno successivo, 921 euro per gli uomini e 716 per le donne. La situazione, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Solo dopo due anni dal diploma i maschi hanno raggiunto 1.157 euro, mentre le ragazze devono attendere un anno in più per superare di poco tale cifra (1.064 euro). A 11 anni dal conseguimento del titolo di scuola secondaria superiore, il reddito medio dei ragazzi diplomati è di 2.076 euro, 530 euro in più rispetto a quelle delle donne (1.546 euro).

Dimissioni consensuali: le mamme superano i papà

Nel biennio 2019-2020, il 54-55% delle cessazioni dal rapporto di lavoro ha riguardato gli uomini. Ma i dati si invertono se si considerano solo le dimissioni e risoluzioni consensuali: i provvedimenti di convalida delle lavoratrici madri hanno riguardato il 72,9% dei casi nel 2019 e nel 77,4% dei casi nel 2020. Scendendo nel dettaglio, le dimissioni volontarie e risoluzioni di lavoratrici madri e lavoratori padri (di bambini/e di 0-3 anni), nel 2020, hanno riguardato complessivamente 42.377 persone. Di queste, 32.812 (il 77,4%) si riferiscono a donne e 9.565 (il 22,6%) a uomini.

In Europa è tutta un’altra storia

La parità di genere può costituire un importante fattore di sviluppo per le aziende, soprattutto in un’ottica di internazionalizzazione del proprio business. Per superare la recessione che colpisce più le donne che gli uomini, la cosiddetta Shecession, bisogna ancora lavorare molto su una She-covery, un rilancio economico post-pandemia con una forte impronta femminile. Secondo Openpolis, in Italia, le mamme tra i 20 e i 49 anni occupate e con un figlio sono meno del 58%, ma la percentuale supera l’80% in Slovenia, Austria, Portogallo, Germania, Malta, Svezia e Lituania. Addirittura, in Danimarca l’81,2% delle donne con almeno 3 figli lavora. In Europa se il figlio minore ha meno di 6 anni, in media lavorano 2 mamme su 3. Ma la quota supera le 3 su 4 (75% di occupate) in Portogallo, Slovenia, Paesi Bassi, Svezia, Lituania, Lussemburgo e Danimarca. In Italia, al contrario, meno del 52% delle donne risultano occupate se il figlio più piccolo ha meno di 6 anni. Una quota superiore solo a quella ceca (40,9%), slovacca (40,2%) e ungherese (38,6%).

Secondo il Global Gender Gap Index 2021 del World Economic Forum, la parità potrà essere raggiunta solo tra 268 anni. Bisogna sottolineare che ci sono profonde differenze tra i Paesi, con quelli del Nord Europa che occupano l’intero podio tra le realtà più virtuose: al primo posto Islanda, seguita da Finlandia e Norvegia. Al quarto posto troviamo la Nuova Zelanda e al quinto la Svezia, con la Namibia sesta e il Ruanda settimo. Per trovare l’Italia dobbiamo scendere fino al 63esimo posto.

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