Di transizione non ce n’è solo una. Proprio così, perché se gli obiettivi di quella che chiamiamo transizione ecologica sono globali e chiari per tutti, definiti dalla scienza, non si può dire altrettanto sul ruolo specifico di ciascun Paese. «Se cerchiamo una misura per distribuire l’impegno della decarbonizzazione tra le diverse nazioni, non possiamo annullare né il passato, né le differenze attuali di sviluppo», dice Stefano Pareglio, professore ordinario di Economia politica ed Economia dell’ambiente e delle fonti energetiche presso l’Università Cattolica. «Bisogna avere chiaro che le responsabilità storiche e i livelli di progresso e benessere sono estremamente diversi su scala planetaria. Proprio per questo, gli impegni di ciascun paese non possono essere il semplice “taglio lineare” delle emissioni». Ma sul futuro della transizione, non ha dubbi: «La caduta dei costi della tecnologia e la crescita degli investimenti della finanza vanno in un senso preciso, la direzione di marcia è segnata».
Esiste un vantaggio economico derivante da una transizione effettuata più velocemente?
«Tutte le evidenze scientifiche vanno in questa direzione. Lo dice chiaramente l’ultimo Rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change): per contenere l’incremento di temperatura sotto 1,5°C al 2100 con un limitato overshoot, la riduzione delle emissioni deve essere molto intensa e molto rapida. Dobbiamo cioè raggiungere la neutralità delle emissioni nel 2050. Se la raggiungessimo nel 2070, l’incremento di temperatura sarebbe di 2°C, e allora i danni all’ecosistema e ai sistemi economici e sociali sarebbero assai più rilevanti. Danni in alcuni casi addirittura irreversibili»».
Quanto deve preoccupare l’apparente inazione di alcune grandi potenze, come Cina o India?
«In realtà, se guardiamo alla situazione di Cina e India, due dei più grandi emettitori, bisogna tenere a mente una cosa: la distribuzione degli impegni a ridurre le emissioni di gas serra non può basarsi solo su ciò che, in valore assoluto, ciascun Paese emette oggi o ciò che emetterà negli anni a venire. Bisogna tenere conto anche di altri indicatori, quali le emissioni storiche, le emissioni pro capite o il reddito pro capite. L’India ha imposto un abbandono del carbone in tempi più lunghi nel corso della Cop26 e ha deciso di raggiungere la neutralità carbonica solo nel 2060, mentre tutti i Paesi più sviluppati puntano al 2050. Eppure, quando raggiungerà il picco di emissioni, quelle pro capite di un indiano saranno estremamente inferiori a quelle di picco raggiunte da Stati Uniti ed Europa».
È possibile che i Paesi “in ritardo” nella transizione paghino con uno svantaggio competitivo?
«Siccome gli effetti del cambiamento climatico sono globali, sia in termini di mitigazione che di adattamento, può esistere un atteggiamento di “free riding” rispetto ai costi da sostenere nella transizione e nello sviluppo iniziale delle tecnologie. Detto questo, stiamo vivendo, e vivremo ancor di più nei prossimi anni, una vera e propria rivoluzione industriale e sociale: scegliere di “starne fuori” non pagherà di certo».
La guerra in Ucraina ci ha aperto lo sguardo su un mondo diverso. Qualcuno dice che l’era della globalizzazione stia finendo. Ma, senza globalizzazione, come si può ottenere un risultato positivo in termini di transizione?
«Il tema della cooperazione internazionale è sempre delicato, perché l’unica architettura istituzionale che abbiamo, con riferimento alla lotta al climate change, è l’UNFCC, cioè la Conferenza quadro sui cambiamenti climatici. La sua concreta operatività è limitata dalla natura di accordo multilaterale, in cui le decisioni vengono richiedono un consenso unanime. Basta un veto perché smetta di funzionare. Con l’accordo di Parigi si è però avutal’intelligenza politica di concordare su un obiettivo, forse un po’ sfocato, da raggiungere peraltro con impegni nazionali volontari, ma soggetti a verifica. Da lì è partita una nuova fase, che, attraverso successivi approfondimenti, ci ha portato ad avere impegni da parte di tutti i paesi. Impegni che vanno nella sempre più nella giusta direzione. Come si capisce, è un meccanismo fragile, ma è l’unico che abbiamo e che comincia davvero a funzionare».
È vero che le energie rinnovabili già ora competono alla pari con le fonti fossili?
«Uno dei principali messaggi dell’ultimo rapporto IPCC è il seguente: il ritmo di crescita delle emissioni sta rallentando. Assistiamo cioè un disaccoppiamento, ancora limitato in verità, tra crescita economica e crescita delle emissioni. In questo contesto, ciò che lascia ben sperare è il crollo dei costi di alcune tecnologie, soprattutto nel settore della produzione energetica. Ormai fotovoltaico ed eolico costano, per unità di energia prodotta, meno del corrispondente fossile: un dato che peraltro fa riferimento a un periodo precedente a quello che stiamo vivendo, in cui i prezzi dei combustibili fossili sono significativamente cresciuti. E tutto ciò senza considerare i numerosi co-benefici, primo tra tutti la riduzione dell’inquinamento dell’aria e del suolo».
Esistono fattori che ci garantiscono ulteriormente da eventuali “passi indietro”?
«Abbiamo alcuni grandi alleati: la crescente efficacia degli accordi assunti nel quadro della UNFCCC, come si diceva in precedenza. Poi c’è lo sviluppo tecnologico, che ha abbattuto i costi delle tecnologie per la decarbonizzazione. E infine la grande attenzione della finanza per i rischi e le opportunità insite nella transizione. Tutte tematiche che avranno un peso crescente nei prossimi anni, anche per l’affacciarsi sul mercato di generazioni consapevoli e attente al tema del cambiamento climatico». ©
Marco Battistone
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