I fondi di Private Equity sono sempre più determinanti. A livello di fusioni e acquisizioni, il loro ruolo negli ultimi cinque anni è salito nettamente, passando da una quota del 24% al 35% delle operazioni totali (dati SDA Bocconi, PE LAB). Nonostante una piccola flessione congiunturale della quota di mercato in questo primo semestre, i fondi si riconfermano come un traino fondamentale per il trend M&A (Mergers and Acquisitions, ovvero fusioni e acquisizioni) nel nostro Paese portando a termine, nei primi sei mesi del 2022, 214 operazioni su un totale di 617. Ma il loro apporto al sistema economico è da misurare anche nei termini di contributo diretto all’economia reale.
«Il Private Equity ha il grande vantaggio di non guardare in faccia a nessuno. Se vede un’azienda con delle potenzialità ci entra. Gli imprenditori invece purtroppo ogni tanto restano collegati a dinamiche familiari che non consentono di essere autonomi» dice Valter Conca, Direttore dell’Osservatorio Private Equity & Finanza per la Crescita. Eppure, l’imprenditoria non è esclusa dai processi.
«Il ruolo del PE è sicuramente di grande affiancamento all’imprenditore. Certo è che l’imprenditore, una volta che entra il fondo, tecnicamente ha venduto. Però, ripeto, in moltissimi casi l’imprenditore segue le strategie di buy and build reinvestendo soldi. Così si ricrea un connubio tra il fondo e l’imprenditore, che vede il secondo divenire finanziatore del primo».
Negli ultimi anni il ruolo del Private Equity nell’ambito M&A in Italia è cresciuto molto. Qual è il suo ruolo, a livello di sistema?
«È un ruolo molto importante, per vari motivi. In primis perché in Italia ci sono tante piccole e medie imprese con imprenditori che spingono moltissimo. Giustamente, in questo momento il Private Equity si sta focalizzando un po’ di più sul big market, quindi quelle imprese che in qualche modo hanno raggiunto un fatturato tale da essere attrattive vi trovano un grande elemento di supporto. In più, oltre alle normali operazioni con leva finanziaria e quindi tendenzialmente di maggioranza o di controllo totale, si è aperto negli ultimi anni il mercato delle minoranze. In ambedue i casi, il private equity è a supporto dell’imprenditore. Per di più, nei casi in cui si entra con la totalitaria o con la maggioranza, accade sempre più di frequente che l’imprenditore che vende resti dentro l’azienda e partecipi al processo di reinvestimento con il fondo, se si trova bene. E questo è un altro elemento importante».
Ultimamente abbiamo spesso visto il Private Equity anche nel ruolo di fiancheggiatore di acquisizioni per famiglie imprenditoriali. Che garanzie in più danno questi fondi?
«È chiaro che se parliamo di società molto importanti, a differenza di quanto accade nel mid-market, la variabile finanziaria gioca un ruolo importante. Questo perché il Private Equity non può sostituire certe realtà, ma quando si parla di gruppi grandi e internazionali entra in una veste finanziaria, per portare un contributo esterno in società che poi saranno cedute a terzi. Certo, magari possono fornire un aiuto nel fare alcune acquisizioni o per effettuare certe operazioni, ma per lo più si tratta di investimenti finanziari puri. Ingressi di minoranza in aziende così grandi gestite già bene. Completamente diverso è il discorso se si parla dell’ingresso in aziende più piccole. Lì sì che dà un contributo grosso di esperienza, managerialità, controllo, reporting e apertura di nuovi canali».
A livello di tessuto imprenditoriale, il fatto che il nostro sia così ampio, ma composto di PMI, può favorire un’ulteriore ascesa del Private Equity?
«Assolutamente sì. Noi abbiamo una fascia critica di aziende di medie e piccole dimensioni, che vanno abbastanza bene ma devono crescere. I fondi di PE che intravedono potenzialità di crescita e creazione di valore ulteriore possono entrare e accompagnare per tre o quattro anni la società in un percorso che spessissimo si fa per aggregazioni successive. Sono politiche che chiamiamo di “buy and build”: entro e costruisco con l’imprenditore un gruppo più grande, facendo altre acquisizioni. In altri termini, sono il tipo di operazioni che chiamiamo “add on”. Il PE entra nel mercato con l’investimento in una prima società, che è la platform. Poi, molto spesso, questa platform fa altre acquisizioni per espandersi. In questi casi, di fatto, è il fondo che spinge la società. In questo modo le può far raggiungere livelli di fatturato sufficienti a garantirsi una “way-out” profittevole».
Ma le acquisizioni a leva non rischiano di danneggiare società di per sé sane?
«Il rischio c’è, ma se guardiamo alla statistica, sono casi abbastanza marginali sul numero complessivo. La seconda osservazione da fare è che un tempo i livelli di leva erano molto elevati, ma oggi andiamo su quote decisamente più moderate, come ci riportano i dati del nostro osservatorio».
È opportuno che le società di PE si espandano così tanto, addirittura fino a quotarsi, come stiamo vedendo ultimamente in alcuni casi?
«Se guardiamo alla storia, i casi di società di Private Equity quotate non sono andati molto bene. Tant’è che ce ne sono pochissime. Per questo io credo sia meglio che il fondo stia per conto suo, rimanendo più flessibile e autonomo. In più la quotazione in Borsa espone a trend macroeconomici che nulla hanno a che vedere con la profittabilità e il valore interno. Questo vale un po’ per tutti, però per un fondo diventa un tema particolarmente scottante».
Nel momento in cui si parla di soggetti che acquisiscono società italiane, si presenta il rischio di una “fuga fiscale”?
«Io non credo. Le motivazioni di investimento dei fondi di Private Equity non sono, alla base, di ordine fiscale. Si compra dove si trova valore industriale. Poi è chiaro che, se c’è la possibilità di trovare soluzioni fiscali corrette, ovviamente le si sfrutta. È proprio per questo che molti fondi giacciono in Lussemburgo, però sono fondi regolarissimi. Per cui, il pericolo c’è, ma non è un aspetto particolarmente ricercato dalle società».
E per i capitali, non c’è pericolo che “scappino” all’estero?
«La maggioranza dei fondi operanti in Italia è di diritto italiano per un motivo: hanno una trasparenza molto maggiore di quelli di diritto straniero. Di conseguenza, anche la capacità di fare acquisizioni è fortemente legata all’immagine del fondo. E se è italiano è molto più facilmente visibile».
Quanto alle prospettive, quali sono i principali trend che vede per il settore?
«C’è da fare qualche considerazione per quanto riguarda i prezzi d’acquisto, che hanno subito negli ultimi anni un salto non indifferente. Su questo fronte mi sembra ragionevole aspettarsi quantomeno una stabilizzazione, se non un rallentamento. Se si esclude questo aspetto, non si intravedono assolutamente segnali di sgonfiamento nel numero di operazioni: se c’è stata una contrazione in questo primo semestre è marginale. Si tratta di un mercato ricco, soprattutto nelle raccolte tra i 100 e i 200 milioni. Per il futuro, operatori e capitali non mancano, il che è un segnale positivo». ©