sabato, 7 Dicembre 2024

Private debt: la “terza via” tra equity e debito

Sommario

Si fa strada sul mercato il Private Debt, ma non senza scossoni. «È una modalità che è quasi una forma di Equity, che consente all’imprenditore di acquisire capitali di debito non a fronte di garanzie di carattere reale, ma di un progetto imprenditoriale, ad esempio di ristrutturazione o acquisizione», dice Innocenzo Cipolletta, Presidente di AIFI, l’Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt che insieme a Deloitte evidenzia dati di mercato significativi.

Nel primo semestre 2022 la raccolta si è fermata a 440 milioni di euro, il 24% in meno rispetto ai 576 milioni raccolti nel primo semestre 2021. Ma il risultato è comunque nettamente superiore a queli di 2019 e 2020, confermando una crescita di lungo termine solida. «Questa realtà è una sorta di via di mezzo tra capitale di debito e di rischio. È debito nella misura in cui il costo è predeterminato, mentre se fosse Equity chi investe avrebbe solitamente un rendimento pari a quello dell’azienda stessa. Però ha le stesse caratteristiche del capitale di rischio nel momento in cui il progetto fa da garanzia». Tutte caratteristiche che rendono il settore un candidato alternativo promettente al tradizionale prestito bancario, per le piccole e medie imprese e non solo.

Il calo nella raccolta registrato nel primo semestre di quest’anno può considerarsi come un fatto esclusivamente congiunturale?

«Il calo del fundraising è legato molto probabilmente al deteriorarsi del clima economico e al rialzo dei tassi d’interesse. Il primo aspetto è evidente dopo la guerra iniziata a febbraio e viste le aspettative di un rallentamento, o perfino una recessione, nell’arco dei primi due trimestri dell’anno prossimo. Quanto al rialzo dei tassi, è un fatto che aggiunge incertezza nei mercati finanziari, perché gli operatori devono impegnare i loro capitali ad alti tassi d’interesse, il che al momento è difficile da immaginare. E gli investitori stessi si trovano in una situazione nuova: fino a ieri confrontavano gli impegni nel Private capital e nel Private Debt con l’andamento dei tassi d’interesse a zero, mentre oggi, con dei tassi che in Italia stanno attorno al 5%, c’è molta più variabilità e questo causa una battuta d’arresto. Noi pensiamo che sia un fenomeno legato a fattori congiunturali e quindi che l’anno prossimo, superata la recessione, dovremmo tornare alla normalità. Dopodiché, si sa, le previsioni sono piuttosto aleatorie in questo momento».

Si mantiene costante lo squilibrio, registrato anche negli anni scorsi, tra operatori internazionali e operatori domestici: i primi, a fronte di molti meno investimenti, contribuiscono al 70% del capitale investito. Come leggere il dato?

«Gli operatori internazionali limitano la loro azione ai grossi deal che sanno valutare. Ogni valutazione è costosa, specie per un operatore che magari non ha sedi in Italia. Per questo, è comprensibile che scelgano di muoversi solo su operazioni di dimensioni elevate. In più, tipicamente, i soggetti internazionali tendono a essere di dimensioni maggiori e quindi possono affrontare investimenti più elevati. Gli operatori italiani, che sono più vicini alle piccole e medie imprese, stanno sul territorio e lo conoscono, sono specializzati invece in accordi di dimensioni più ridotte».

Al tempo stesso calano le dimensioni degli investimenti: nessuno sale sopra i 100 milioni. Che riscontro ha questo fatto a livello macroscopico?

«Il deteriorarsi delle prospettive evidentemente va a colpire principalmente gli impegni di investimento più elevati, che di solito hanno durata più lunga. Gli investimenti con capacità di ritorno più immediate, meno influenzati dalle evoluzioni della congiuntura, vengono privilegiati rispetto agli altri. Per giunta il nostro mercato non è così gigantesco da avere sempre una struttura fissa, da un punto di vista di grandezze di PIL. È talmente sottile che basta che magari uno o due grossi deal si presentino in un semestre per cambiare nettamente la situazione».

Ma perché anche una grande impresa dovrebbe affidarsi al Private Debt?

«Bisogna ricordare che gli interessi sono deducibili fiscalmente. Per questo, anche una grande impresa che si trovi a dover intraprendere un progetto di una certa rilevanza e non voglia aumentare il suo indebitamento a breve, ha tutto l’interesse a rivolgersi a un operatore di Private Debt. In generale è un’alternativa che necessita di alcune condizioni per essere adottata con profitto. Però sono caratteristiche abbastanza frequenti, anche per imprese di una certa dimensione».

In riferimento allo stesso periodo dell’anno scorso, i capitali raccolti da operatori esteri sono drasticamente calati…

«In generale, non è un fatto a cui attribuirei particolare importanza, anche se sicuramente l’incertezza del momento ha ostacolato l’afflusso di capitali. Per fortuna una parte di essa, ovvero quella giuridica dovuta all’incognita delle recenti elezioni, va dissipandosi».

Altrove in Europa, il Private Debt ha performato meglio che in Italia, anche a fronte di una congiuntura economica molto simile. Cosa ci manca per raggiungere gli altri?

«Innanzitutto, il nostro è un mercato giovane, che risente di una variabilità maggiore di altri. Di fatto, da noi il Private Debt è iniziato nel 2014/2015 con un forte impegno del settore pubblico. Infatti, fu Cassa Depositi e Prestiti che, attraverso il Fondo Italiano di Investimento creò nel 2015 dei fondi di Private Debt. Oggi abbiamo sette anni alle spalle e di strada ne abbiamo fatta veramente tanta, ma evidentemente rimaniamo decisamente indietro rispetto ad altri Paesi. Non solo per numero di operatori e imprese che ricorrono a questo strumento, ma anche per apertura degli investitori istituzionali a investire in questo mercato. Teniamo anche presente che c’è stato un periodo in cui la legislazione favoriva Private Equity e Venture Capital nei fondi pensione, ma escludeva invece il Private Debt, considerato non adatto».

È realistico auspicare un maggiore investimento dalle istituzioni?

«Assolutamente sì. Anche perché questo mercato attrae in potenziale sia il mondo delle assicurazioni sia quello delle pensioni. Questi fondi sono più prevedibili rispetto a un Private Equity tipico, che deve seguire costantemente l’andamento di una azienda, con i rischi a esso associati. Non a caso in questo settore, fallimenti e insolvenze sono molto rari. Per questo si tratta di asset più sicuri rispetto ad altri. E bisogna aspettare meno per realizzarli, per cui hanno un grado di liquidità maggiore rispetto al Private Equity».

Investire nel settore è consigliabile anche in un periodo come questo, con i tassi d’interesse in rialzo?

«Io penso di sì, perché il Private Debt mantiene comunque sempre un determinato scarto rispetto al tasso d’interesse prevalente. Da questo punto di vista, il problema è più che altro l’accelerazione dei tassi, che rende instabile ed estremamente volatile il mercato. Il che disturba chi deve investire, perché l’incertezza rende difficile impegnare il proprio capitale».©

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".