giovedì, 25 Aprile 2024

La mafia “vale” il 2% del PIL: ecco che affari fa e dove è più radicata

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La mafia non è solo un potere militare. È anche e, soprattutto, un potere economico in grado di fare investimenti, interfacciarsi con i mercati finanziari e vincere le gare d’appalto. L’economia è vitale per la criminalità organizzata. È il cuore pulsante, uno strumento che permette di gestire affari illegali e nasconderli in quelli legali. Un fiume di denaro che in Italia ammonta a 35 miliardi di euro, quasi il 2% del PIL (Prodotto Interno Lordo) italiano. È questa la somma stimata da Trascrime (il Centro interuniversitario costituito dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, Alma Mater Studiorum Università di Bologna e dell’Università degli Studi di Perugia) che viene intascata dalle mafie a seguito di attività illecite. «Sono cifre che fanno pensare a quanti miliardi mancano per risolvere i problemi dei cittadini. Ed è per questo che si rimane basiti quando si legge quanto la mafia intaschi dagli affari illegali: l’equivalente di 104 milioni di euro al giorno», dice Giuseppe Antoci, già Presidente del Parco dei Nebrodi e Presidente onorario della Fondazione Caponnetto. «Un dato pazzesco dietro al quale c’è un Paese che per colpa anche di questo ammanco economico, arranca». L’intuizione avuta alla fine degli anni Settanta dal Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa, nell’ambito dell’indagine sul clan Spatola fu di seguire il flusso di denaro per scoprire cosa nasconde la mafia. La cosiddetta “follow the money” (la tecnica delle indagini bancarie e societarie). Un metodo che venne ereditato, in seguito, anche dal giudice Giovanni Falcone.

Il fenomeno criminale quanto frena lo sviluppo economico nel lungo periodo?

«Questi dati sono un freno pesantissimo allo sviluppo economico del Paese. Anche dal punto di vista psicologico. Pensiamo a quanta serenità viene tolta agli imprenditori sotto usura quando vengono minacciati. Questi fenomeni, purtroppo, hanno anche un forte impatto sociale, perché rubano sogni e futuro. Non fanno pensare al lungo periodo».

In quali settori si verificano i maggiori ricavi?

«Il commercio e il turismo, senza dimenticare che le peggiori estorsioni colpiscono le piccole e medie imprese, facendo soffrire molto questo settore, tanto che alcune categorie si sono dovute organizzare. SOS Imprese, per esempio, nata da Confesercenti cerca sempre di dare il suo supporto alle persone sotto ricatto e a tutti quegli imprenditori che hanno storicamente pagato un prezzo anche di vite umane».

La presenza mafiosa non è circoscritta nelle province del Mezzogiorno, ma incide anche al Centro Nord (in particolare Roma, Genova e Imperia), i territori con una minore presenza della criminalità sarebbero, invece, Triveneto, Valle d’Aosta e Umbria. Quali sono le condizioni che rendono più favorevole la presenza delle mafie nei territori?

«Dobbiamo essere molto chiari su questo aspetto. Non ci sono regioni esenti dalla criminalità organizzata. Mentre pensavamo questo, la vicenda Aemilia di Reggio Emilia (processo contro la ’ndrangheta al Nord, ndr)ci ha dato un bello schiaffo. Solo quando arrivò il Prefetto Antonella De Miro (a Reggio tra il 2009 e il 2014, ndr) furono attivate le interdittive antimafia, anche se il territorio si opponeva perché si definiva “vergine”. Peccato, però, che poi si è svolto un processo che ha visto più di 400 imputati. Per tutti, in quelle aree la mafia non era presente. Per molti anni la criminalità si è mossa sottotraccia ed è entrata in politica e nelle imprese. Bisogna, quindi, usare grande attenzione anche sui territori “vergini” perché i mafiosi preferiscono operare dove l’asticella dei controlli è molto bassa. Guai a distrarsi in quelle aree».

Anche le infiltrazioni nelle imprese sono concentrate soprattutto nel Mezzogiorno, ma una quota rilevante riguarda territori al di fuori dai confini tradizionali delle mafie: oltre il 30% delle imprese confiscate alle mafie in passato erano localizzate al Centro Nord…

«Tutto questo è la conferma di quanto abbiamo detto in precedenza».

Le imprese che ritengono “abbastanza” o “molto probabile” che si siano verificati fenomeni legati alla criminalità organizzata durante il periodo di emergenza pandemica sono passate dal 9% del 2019 al 16% nel 2020, con un aumento maggiore per i reati di natura finanziaria (acquisizioni e/o finanziamenti insoliti) rispetto a quelli violenti (intimidazioni, minacce e tentativi di estorsione). Gli ultimi due anni quanto e come hanno favorito le mafie?

«Insieme all’ex Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho e al Prefetto Franco Gabrielli abbiamo lanciato l’allarme su un possibile arricchimento delle mafie nel periodo pandemico. Ci siamo scontrati con due grandi problemi: uno di carattere economico e uno di carattere sociale. Per quanto riguarda il primo, l’usura è arrivata in un momento in cui molte famiglie e imprese non avevano liquidità. Chi possedeva denaro? Le mafie, pronte a immetterlo tentando di far capire alle persone che erano pronte ad aiutarle “a differenza dello Stato”. Nei mesi caratterizzati dal Covid-19 alcune aziende hanno rischiato la chiusura o il fallimento, altre sono state costrette a chiudere definitivamente. Così i proprietari sono diventati le teste di legno della criminalità organizzata. Stesso discorso per la parte sociale. Il più grande rischio che abbiamo avuto era il “mafioso benefattore”. Grazie alle operazioni delle forze di polizia si è scoperto che le famiglie mafiose portavano la spesa a chi aveva bisogno. Questo faceva scattare un circolo vizioso: questi aiuti dovevano essere ricambiati. È stato un momento davvero pericoloso».

In quale settore si è registrato l’incremento del rischio di infiltrazione mafiosa?

«Durante la pandemia tutti i settori erano il bersaglio delle mafie, ma ricordo soprattutto quello turistico legato a storiche regioni del centro nord che hanno subito un tracollo con il rischio che la malavita si comprasse pezzi di Paese».

Il tetto al contante salirà a 10 mila euro. Cosa ne pensa?

«Ritengo che la soglia di 10 mila euro sia alta. Rischia di attivare troppi meccanismi illegali»

Con la sentenza del Tribunale di Patti sono state emesse 91 condanne e inflitti oltre 6 secoli di carcere al maxiprocesso dei Nebrodi per le truffe ai danni dell’Unione europea sulla mafia dei pascoli. Su quella parte di territorio della provincia di Messina le truffe hanno costituito la principale fonte di arricchimento sia del gruppo mafioso dei Batanesi sia del gruppo dei Bontempo Scavo. Determinante il Protocollo che porta il suo nome. Quanti milioni sono stati tolti alle mafie in questi anni?

«Intanto tengo a precisare che questa vicenda non è legata solo al Parco dei Nebrodi e nemmeno circoscritta alla Sicilia o all’Italia, ma è un fenomeno molto diffuso, è ben radicato e si sta cercando di contrastare sulla base della nostra esperienza anche in altri Paesi dell’Europa. In maniera inverosimile, nel corso degli anni, si sono finanziati i mafiosi attraverso i fondi pubblici. Prima del 2014, le aziende agricole (spesso legate alla mafia rurale) prendevano in affitto i pascoli per chiedere, in un secondo momento, i fondi agricoli europei. Sotto la soglia dei 150 mila euro bastava una semplice autocertificazione. L’affare era molto conveniente. Così abbiamo studiato un protocollo, nato in Sicilia e sottoscritto da tutti i Prefetti della regione. Nel 2017 è diventato legge nazionale e la Commissione europea ha consigliato la sua applicazione come strumento eloquente di lotta alla mafia».

Un percorso lungo e difficile, con molti ostacoli da superare. Quali sono state le conseguenze?

«Questo viaggio ci ha fatto capire che avevamo scoperchiato una delle più importanti fonti di finanziamento delle mafie. È stato doloroso e ha visto tante vittorie, ma anche molte sofferenze».

Quali?

«Un attentato di mafia cambia la vita non solo a chi lo subisce, ma anche alla famiglia. Perdere la libertà è una delle cose più brutte che possa succedere. Ma, nello stesso tempo, ti fa essere riconoscente allo Stato che è stato rappresentato da quattro meravigliosi uomini della Polizia. La vicenda si è concretizzata con un’indagine colossale dei carabinieri del Ros e della Guardia di Finanza e grazie al Protocollo il 20 gennaio del 2020 si è svolta una delle operazioni più importanti con 101 arresti e 151 aziende sequestrate per mafia. Tutto ciò si è concluso con uno storico maxi processo di soli 20 mesi. La magistratura, che ha svolto un lavoro egregio, ha condannato nove indagati su dieci a più di 600 anni di carcere. Una storia a lieto fine che ha visto una grande vittoria: degli agricoltori e degli allevatori onesti, perché è inaccettabile che in un Paese nel quale si commemorano le stragi di Capaci, via D’Amelio (nella quale morì il giudice Paolo Borsellino il 19 luglio 1992, ndr) e molte altre, si lasci “mano libera” ai mafiosi di incassare soldi pubblici. Non è normale pensare che alcuni terreni dell’aeroporto di Palermo “Falcone e Borsellino” o della base MUOS di Niscemi, a Caltanissetta, venissero spacciati per agricoli. È stato un segnale importante del Paese perché la magistratura ha dimostrato una grande efficienza».

Per ottenere grandi risultati nella lotta alla mafia serve anche una magistratura efficiente. Quali sono, oggi, i punti critici del settore?

«La vertà è molto semplice: ci vogliono i magistrati. Bisogna aumentare il numero dei posti messi a concorso. Parallelamente c’è bisogno di più amministrativi. Serve una grande squadra. Un altro fattore che può far cambiare rotta è la digitalizzazione degli atti. Con il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) si possono portare avanti questi obiettivi. Il punto di partenza è l’ampliamento dell’organico. Credo sia questa la “grande riforma” che serve al nostro Paese». ©