mercoledì, 24 Aprile 2024

Parità di genere, Scicolone: «Le norme funzionano solo se c’è controllo: serve un’Authority»

Florinda Scicolone parità di genere

Raggiungere la parità di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze. È quanto si legge nell’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU. Ma è anche quanto ci si auspica in termini di giustizia sociale e ripartenza dell’economia.

La ripresa, infatti, non può prescindere dalle donne e dalla valorizzazione del loro talento. Alcuni passi sono stati fatti, ma la strada è ancora lunga, come emerge anche dal Global Gender Gap Index, l’annuale report del World Economic Forum che misura il divario di genere in termini di partecipazione economica e politica, salute e livello d’istruzione.

Nella graduatoria globale l’Italia è 63esima su 146 Paesi, mantenendo invariata la sua posizione rispetto al 2021, dietro Uganda (61esima) e Zambia (62esima). In Europa il posizionamento non è migliore, 25esima su 35 Paesi.

Il quadro non è esaltante, ma ci sono dei segnali positivi. A quasi dodici anni dall’entrata in vigore della Legge Golfo Mosca, che impone una rappresentanza femminile nei board delle società partecipate e in quelle quotate, si iniziano a vedere segnali confortanti.

«Possiamo dire che quella legge è stata un successo – afferma Florinda Scicolone Giurista d’impresa e Diversity & Inclusion Specialist, fautrice alla Camera dei Deputati insieme all’on. Cristina Rossello delle celebrazioni per il decennale del provvedimento nel 2021 – Per quanto riguarda le società quotate ha sfondato il soffitto di cristallo. In base all’ultima relazione della Consob siamo arrivati, come presenze femminili nei board dei Cda, al 42,8% quindi si è superata anche la quota di genere del 40% aumentata dalla Legge Proroga della Golfo Mosca del 2019 (prima era del 30%)».

Il meccanismo della legge, però è diverso a seconda che si parli di quotate o di partecipate e qui emerge nuovamente il problema culturale

«Per le quotate la normativa prevede che le società siano sotto l’egida della Consob, quindi un’autorità indipendente che vigila e che alla terza diffida commina la sanzione della decadenza dell’intero Cda, con sanzioni pecunarie nelle due diffide precedenti. È una normativa che funziona bene perché interviene una sanzione di decadenza e quindi è chiaro che le aziende, gioco-forza, devono adeguarsi. Per le partecipate l’applicabilità della vigilanza della normativa è affidata al governo, cioè la legge non prevede, come nel caso delle quotate, un’autorità di vigilanza di diritto amministrativo autonoma. Io penso sarebbe auspicabile avere in Italia la costituzione di un’Authority garante per la Parità di genere, che sia preposta al controllo dell’applicabilità di tutte le normative che abbiano ad oggetto la parità di genere e quindi andrebbe anche a controllare l’applicabilità della Legge Golfo Mosca anche nelle partecipate. Là dove sono controllate e c’è una maggiore vigilanza le normative sono rispettate e funzionano. Un’Authority andrebbe ad agevolare molte normative, soprattutto nel mondo del lavoro».

Come mai non si è ancora pensato a un’Authority per la Parità di Genere, considerato che di altro tipo ce ne sono per qualsiasi tematica?

«Non è stato fatto finora perché purtroppo in Italia tutto quello che riguarda la Parità di Genere viene rinviato. Abbiamo una serie di Authority che sono state create a iosa, ma per quanto riguarda questo tema, come sempre, possiamo dire che non si è sfondato il soffitto di cristallo della cultura maschilista e non si è avuto un progetto di Legge che abbia per oggetto l’Authority e che sia sottoposto al Parlamento. Io auspico che questo avvenga in questa legislatura, perché ci sono segnali che arrivano dall’Unione Europea, perché questi sono gli anni in cui è entrata in vigore la Certificazione della Parità di Genere nelle aziende, c’è il PNRR e avremmo una serie di normative per cui sarebbe importante interfacciarsi con un’Authority».

Nella Direttiva dell’Ue che entrerà in vigore nel 2026, si parla però di merito e non solo di quote a scaglioni, come invece fa la Golfo Mosca. Come funzionerà?

«La Direttiva ha un meccanismo che riprende la Legge Golfo Mosca, che in questo senso – dobbiamo ricordare – è stata antisignana, ma non è uguale, perché pone un meccanismo meritorio. Nella percentuale delle quote di genere che dovranno andare a occupare i board dei CdA pone tra i criteri non solo una percentuale ma anche dei criteri di merito.

In base al diritto internazionale, la normativa europea prevale su quella italiana, per cui anche se noi abbiamo una normativa in vigore, dovremo adeguarci alla Direttiva. Cosa accadrà? Che in automatico quelle parti che sono in contrasto con la normativa europea decadranno, quindi la Legge di recepimento dovrà essere scritta tenendo conto del nuovo meccanismo. Questa è una fase molto delicata, in cui abbiamo per la prima volta in Italia un premier donna e sono gli anni in cui avremo una legge di recepimento che seguirà il meccanismo meritorio. Mi piace pensare che questo rappresenti un passaggio culturale e che di conseguenza possano vedersi sempre più presenze femminili e meritorie. Il riconoscimento meritorio, a prescindere dalla normativa è difficile, perché presuppone un cambiamento culturale, si deve scardinare il retaggio di una cultura maschilista».

Perché facciamo così fatica?

«Noi donne non vorremmo mai parlare di quote, perché il concetto stesso di quote è una diminutio. Ma va sottolineato che, se noi prima della Golfo Mosca avevamo un dato al 4% e ora siamo al 42,8%, vuol dire che questo Paese ha bisogno della normativa per far andare avanti qualcosa che si spera diventi la normalità, senza lo spauracchio delle sanzioni».

Quanto costa il gender gap all’Italia?

«Il gap dell’Italia è un retaggio storico, perché l’esercizio del potere da noi è ancora uomo. Se noi vediamo che i board dei CdA delle quotate arrivano al 42,8% di presenza femminile e poi vediamo i Cda delle non quotate ci rendiamo conto che il problema culturale continua. La ratio della Golfo Mosca era quella di avere un tempo necessario affinché si attivasse un cambiamento culturale e che poi si sarebbe andati da soli. Per il momento possiamo dire con certezza, purtroppo, che se non fosse ancora in vigore la Legge Golfo Mosca, non avremmo quel dato del 42,8%.

Il gender gap, però, ha un costo notevole: se ci fosse una reale parità di genere il PIL subirebbe un enorme beneficio, salirebbe di circa il 30-35%. Anche perché i dati statistici ci dimostrano che, laddove ci sono donne nelle posizioni apicali, i bilanci migliorano. Quindi bisogna cominciare a vedere la parità di genere non più come un regalo alle donne. È passato il tempo in cui noi donne aspettiamo questo favore. La parità di genere non fa bene solo alle donne, ma alle aziende tout court, quindi bisogna andare a identificare la parità come un asset importante del business sul quale investire. Migliorano i bilanci aziendali, migliora il PIL di uno Stato. Che ci sia ancora oggi una mortificazione della valorizzazione dei talenti femminili equivale a una mortificazione del PIL di uno Stato, delle potenzialità che uno Stato può avere. Non valorizzare i talenti femminili significa che uno Stato mortifica se stesso».

Ci sono anche altri tipi di vantaggi economici che una vera parità di genere potrebbe portare a cascata?

«Io ritengo che sia importante identificare cosa si intende per gender pay gap, perché spesso mi sento dire che due persone di sesso diverso con lo stesso contratto di assunzione hanno la stessa retribuzione. Il problema è il gender pay gap indiretto, perché nel momento in cui, a parità di assunzione, poi la donna non ha delle promozioni, dei passaggi di categoria, mentre l’uomo con facilità ce li ha, è chiaro che la discriminazione retributiva ci sia anche se indirettamente. E questo si vede moltissimo nelle aziende nei passaggi tra quadro e dirigente: molte donne rimangono quadro, mentre gli uomini accedono facilmente al livello dirigenziale.

Noi ora stiamo parlando di una condizione elitaria, quindi del ruolo delle donne nelle governance, ma ampliando il discorso in generale al tema dell’occupazione femminile dobbiamo considerare che non si parla solo di generare economia e quindi punti di PIL. Combattere la disoccupazione femminile andrebbe a combattere la violenza di genere, dare occupazione alle donne significa dare loro autonomia finanziaria ed evitare che siano succubi di questo meccanismo di esercizio del potere al maschile interno alle famiglie. La donna non denuncia mai se non ha un’occupazione, se non ha modo di ricominciare, se non ha modo di emanciparsi dall’uomo. Quindi stimolare l’occupazione femminile non solo metterebbe in moto l’economia di uno Stato, ma andrebbe a salvare vite umane.

Bisogna capire che non sono argomenti separati. Spesso quando si parla di governance si parla di Legge Golfo Mosca, si parla di una normativa che riguarda una nicchia, che sembra distaccata dai veri problemi delle donne comuni. Non è così, perché le donne che arrivano in posizioni apicali devono sempre tener presente di fare qualcosa affinché dentro le aziende le donne possano esprimersi e migliorare. Perché dietro l’angolo c’è sempre lo spettro della violenza di genere e il modo efficace per combatterla è l’autonomia finanziaria».

Bonus come quelli inseriti in manovra possono aiutare?

«Abbiamo un tasso di disoccupazione femminile già più alto di quello maschile e la pandemia ha visto un’emorragia di donne dal mercato del lavoro. Nel momento in cui ci sono degli strumenti che possono agevolare le donne a entrare nel mercato del lavoro, questi aiutano a stimolare l’economia. Provvedimenti come il bonus donne e quello per over 50 sono molto importanti, ma sarebbe ancora più auspicabile avere una defiscalizzazione del trattamento retributivo, quindi non una decontribuzione ma avere proprio una tassazione diversa del lavoro femminile, in modo tale che un’impresa abbia un interesse maggiore ad assumere una donna».

Abbiamo accennato alla Certificazione della Parità di genere, una misura prevista nel PNRR. Quali sono i criteri per ottenerla?

«La si può considerare un mezzo per ottenere lo sviluppo della parità di genere. Non è una certificazione obbligatoria, ma si richiede su base volontaria. Però prevede dei meccanismi premiali, per cui le aziende che decidono di investire nella parità otterranno, una volta ottenuta la certificazione, una decontribuzione e soprattutto un posizionamento migliore nella partecipazione ai bandi, sia europei che nazionali. Di fatto stiamo vedendo che il mercato sta rispondendo bene. La normativa è entrata in vigore nel luglio scorso e a oggi abbiamo quasi 200 aziende certificate.

Per la prima volta le aziende che vorranno dimostrare di investire in questo senso si dovranno dotare di una programmazione strategica sulla parità di genere. La prassi prevede che saranno 6 gli indicatori che vanno dall’organigramma dell’azienda alla possibilità di conciliare lavoro e famiglia, dal gender pay gap alla valorizzazione delle mansioni.

È prevista anche la creazione anche di nuove figure professionali, perché le aziende dovranno nominare un responsabile della parità di genere, dovranno nominare un comitato guida, quindi un intero sistema di gestione compliance che rende la parità di genere a tutti gli effetti un driver importante di sviluppo del business. Non solo, il processo non finisce una volta ottenuta, ma le aziende annualmente dovranno dimostrare attraverso un monitoraggio che si tratta di un processo continuo».

Non c’è il rischio che la richiedano solo aziende strutturate e di grandi dimensioni, quelle cioè che possono permetterselo? Il tessuto economico italiano però è fatto soprattutto di piccole e medie imprese, rischiano di essere penalizzate?

«Sicuramente, come tutte le normative che prevedono dei costi, è chiaro che le aziende più strutturate siano agevolate, un po’ perché hanno i mezzi economici un po’ perché magari hanno già avviato internamente un dibattito sulla diversity inclusion. La normativa dovrebbe essere accompagnata da una parte economica per sostenere le aziende che vogliono procedere ad adeguarsi ma non hanno la possibilità. Si aspettano quindi dei fondi, che dovrebbero essere gestiti da Unioncamere, di cui le aziende più piccole potranno fare richiesta sia per quanto riguarda l’attività di consulenza e tutoraggio per ottenere la certificazione sia per l’aspetto più economico per le modifiche da attuare. Lo scorso dicembre, per esempio, Regione Lombardia ha emanato un provvedimento che sostiene le microimprese che vogliano ottenere l’ausilio per richiedere la certificazione».

Rispetto a quanto detto finora, com’è messa l’Italia rispetto all’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030?

«Ci mancano tutti quei provvedimenti che generano occupazione femminile, che mettono in moto tutte quelle situazioni che fino a oggi non sono inclusive per il mondo femminile. L’Italia, per quanto riguarda i board, è un Paese antisignano, avendo la Golfo Mosca dal 2011. Abbiamo ora questa normativa sulla Certificazione e abbiamo recepito delle Direttive dell’UE, per esempio per quanto riguarda la responsabilità sociale dell’impresa, in cui devono rendere pubblici tra i dati anche quelli sulla parità di genere. Come Italia, però, possiamo e dobbiamo fare ancora tanto. Bisogna dare possibilità alla donna di conciliare famiglia e lavoro, di non dover scegliere. A quel punto credo che la sostenibilità si possa considerare applicata. Ma prima si deve scardinare la cultura al maschile. Mi piace pensare che si arrivi a un punto, entro il 2030, in cui non sia più necessaria una norma per far sì che le donne stiano dove meritano».