martedì, 23 Aprile 2024

Il Gender Gap in Italia rimane un miraggio: ecco perché

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Altro che parità di genere: servono ancora 151 anni per raggiungere questo obiettivo per le imprese al femminile nel nostro tessuto economico. Un dato – pubblicato dal Global Gender Gap Report – che fa riflettere. E non poco, soprattutto considerando che in Italia si cammina lentamente. Malgrado ciò, qualche accenno a cambiare passo si vede. A partire dalla certificazione della parità di genere nelle imprese. «La strada da fare non è breve, ma mai come in questo momento è alta l’attenzione sulla tematica», dice Anna Lapini, Presidente nazionale del Gruppo Terziario Donna di Confcommercio, rappresentativo delle imprenditrici associate a Confcommercio-Imprese per l’Italia, che operano nei settori del commercio, del turismo, dei servizi, delle PMI e nelle professioni. «Sono stata eletta Presidente poco più di un anno fa e ho considerato di buon auspicio che nello stesso mese si svolgesse il primo G20 dedicato alle donne. Più o meno nello stesso periodo è stata approvata la legge sulla parità salariale (meglio tardi che mai). Ora c’è un altro strumento, concreto, operativo, finalizzato ad accorciare le distanze sul gender gap: la “certificazione di parità di genere” all’interno delle aziende e delle organizzazioni, istituita dalla legge 162 del 2021». Nel ranking dei Paesi dell’Europa Occidentale – con un punteggio di 0,721 contro una media europea di 0,776 – l’Italia si trova al 17° posto, preceduto tra gli altri da Portogallo, Lussemburgo, Islanda e Belgio. Anche sulla “partecipazione e le opportunità economiche” i dati non sono molto confortanti. Per il primo aspetto, siamo ultimi in Europa occidentale e siamo al 114° posto nella classifica stilata a livello mondiale. Infatti, il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un basso tasso di occupazione (lavora meno di una donna su due) e da una forte differenza salariale (stimata al 5,6% dal World Economic Forum).

A livello nazionale cos’è cambiato in questi mesi?

«Sicuramente – come dicevo – l’introduzione della “certificazione di genere”, finalizzata all’attivazione di un sistema che migliori le condizioni lavorative delle donne anche in termini qualitativi, di remunerazione e di ruolo. È un passo in avanti ed è in linea con l’attenzione che la contrattazione collettiva del terziario riserva da sempre ai temi della parità di genere e delle misure di sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Le agevolazioni previste per le imprese che ottengono la certificazione – esonero dell’1% (fino a 50mila euro all’anno) sui contributi da versare e una serie di incentivi in materia di appalti e bandi europei – per i quali sono già stati stanziati nella legge di bilancio 50 milioni di euro per il 2022 – rispondono sicuramente a una logica premiante che, accompagnata alla volontarietà dell’adesione al sistema da parte dell’impresa, fanno di questa attestazione una leva efficace per la promozione quantitativa e qualitativa dell’occupazione femminile. Confcommercio è già pronta, con un proprio organismo di certificazione accreditato (Uniter) e iniziative di promozione e di diffusione (I webinar di Terziario Donna): le prime imprese e organizzazioni associate hanno già ottenuto il documento».

Nel PNRR sono destinati 400 milioni di euro per l’imprenditorialità femminile. Basteranno?

«Il PNRR (nell’ambito della Missione 5, Componente 1, l’investimento 1.2 “Creazione di imprese femminili”) prevede specifici strumenti di sostegno e di promozione dell’imprenditoria “rosa”, anche attraverso il rifinanziamento di misure esistenti. In questo ambito rientrano i 400 milioni di euro, destinati per il rafforzamento della dotazione del “Fondo a sostegno dell’impresa femminile”, ma non solo, e alle misure di accompagnamento, al monitoraggio e alle campagne di comunicazione. Tale approccio risponde senz’altro all’obiettivo di promuovere l’imprenditoria delle donne. Non si può, tuttavia, non considerare il gap fra gli stanziamenti previsti rispetto all’elevata domanda che è stata manifestata all’apertura dei bandi. Il meccanismo del click day, infatti, ha consentito solo a una piccola parte della platea di imprenditrici o neo imprenditrici interessate di poter accedere al sistema, determinando l’esclusione di un ampio potenziale di progettualità che merita sicuramente di essere sostenuto».

Nel 2021 sono quasi un milione e 343mila le realtà femminili in Italia; la maggior parte di queste opera nel settore dei servizi (66,8%), seguita a netta distanza da quella dell’agricoltura (15,4%) e quella dell’industria (11,3%). Quanto è difficile aprire un’impresa?

«Voglio fare una premessa: non esiste un modo di fare impresa al maschile o al femminile, le leggi di mercato non fanno distinzioni, ma per competere è necessario che le condizioni siano le stesse per chiunque vi opera: stesso mercato, stesse regole, vale anche in questo caso. Intendo dire che è necessario creare delle condizioni di partenza che siano eque e rimuovere gli ostacoli che penalizzano le imprese. Accesso al credito, formazione, digitalizzazione sono presupposti senza i quali fare impresa, in particolare nel terziario, è difficile se non impossibile. I progetti di Terziario Donna vanno in questa direzione: l’alfabetizzazione finanziaria, la diffusione delle materie STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics) o il supporto nel posizionamento digitale delle imprese».

Nel biennio 2020-2021 le imprese femminili che hanno investito in tecnologie digitali sono il 14% (l’11% quelle guidate da uomini). Un terzo ha aumentato (il 9%) o mantenuto costanti gli investimenti (22%). Mentre il 21% ha diminuito o interrotto gli investimenti (contro il 22% delle imprese non femminili). Come aiutare gli imprenditori?

«È importante che gli incentivi per favorire lo sviluppo di nuove imprese femminili nei settori strategici della digitalizzazione (ma anche del Green) siano integrati da adeguate dotazioni destinate a imprese anagraficamente più strutturate anche di settori tradizionali, per favorirne la transizione verso modelli aziendali maggiormente orientati alla sostenibilità e all’innovazione».

Più del 40% delle imprese (il 41% delle femminili e il 42% guidate da uomini) non ha investito nel Green e non ha intenzione di farlo nel prossimo triennio (2022-2024). Tra le “barriere”: l’insufficienza di risorse finanziarie e la mancanza di cultura e di competenze Green. Le imprese “rosa”, però, hanno sviluppato negli ultimi anni una maggiore sensibilità alla tematica, tant’è vero che il 12% ha iniziato a investire nel biennio 2020-2021. Qual è il ruolo della sostenibilità nel fare impresa?

«È un concetto che va oltre il “Green”. Non si può parlare di sviluppo senza la sostenibilità: economica, ambientale e sociale. La crisi energetica ha messo in crisi i modelli di approvvigionamento e sta mettendo in ginocchio le imprese per i costi impazziti. Scindere il concetto di sostenibilità ambientale, sociale ed economica non ha senso. Confcommercio ha incontrato le forze politiche e ha presentato un documento: “Le ragioni delle imprese, la responsabilità della politica. Le proposte del terziario per la prossima legislatura”. Ora servono risposte». ©

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