giovedì, 5 Dicembre 2024

Luksch, PoliMi: «Crescono le Startup in rosa ma le donne sono bloccate da cultura e welfare»

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donne

Il profilo del fondatore italiano di startup è prevalentemente maschile. «Su 174 startup hightech il 77% è fondata da soli uomini», dice Alessandra Luksch, Direttore Osservatorio Startup Intelligence del PoliMi. «Il 23% da gruppi misti, uomini e donne, mentre se analizziamo quelle fondate solo da donne si riducono al 5%. E questo è un dato anche molto distante da quelle che sono le medie nazionali in cui l’imprenditoria femminile raggiunge il 20% nel nostro Paese, se consideriamo le imprese tout court. C’è da dire che il nostro dato riguarda le startup hi-tech e legandolo al sottodimensionamento della componente femminile nelle STEM, possiamo capire come sia possibile che siano guidate e fondate prevalentemente da uomini».

Un dato che però non è più confortante se guardiamo i numeri europei

«Sì, nel nostro studio abbiamo visto che rispetto ai fondatori di startup che abbiamo intervistato (436 startupper) in Italia solo il 12% sono donne e l’88% sono uomini. A fronte di un dato europeo leggermente superiore, in cui la forbice è leggermente più ristretta, ma siamo sempre in un quadro desolante. Ma sappiamo che il problema STEM è molto italiano, ma anche comune ad altre nazioni, perché le ragioni di natura culturale di questo divario sono le stesse. Tuttavia, i numeri ci dicono che l’imprenditorialità femminile sta crescendo, lo dimostrano i dati delle camere di commercio, dell’Albo nazionale delle startup innovative. E in questo in qualche modo la pandemia ha inciso».

Secondo un report di LinkedIn nell’ambito dello studio del WEF, nel 2022 le donne hanno fondato aziende a un ritmo più veloce degli uomini e con un netto aumento nel corso del 2020

«C’è stato un doppio movimento. Se da un lato la pandemia ha inciso negativamente sul lavoro femminile, come riportato dall’Istat, dall’altro lato in realtà ha generato molti spunti in quelle donne che credevano nella propria idea e ha permesso di liberare molta creatività e imprenditorialità. La pandemia ci ha messo di fronte alla mancanza di tutta una serie di servizi che potessero consentire alle donne di lavorare. Mi riferisco a tutto l’ambito dell’accudimento, e si è assistito anche alla scelta delle aziende di dismettere il personale femminile rispetto a quello maschile. Però ha consentito anche un grande fermento di innovazione in risposta, come spesso succede, e come è tipico del DNA dello startupper».
«A tal proposito, l’Osservatorio sull’imprenditorialità femminile di Unioncamere ci dice che negli ultimi due anni le startup al femminile sono aumentate del 40%, un dato in linea anche con lo studio del WEF. Questa nuova imprenditorialità femminile è poi sempre più orientata verso settori innovativi legati alla conoscenza, alle materie scientifiche, ai servizi finanziari, alla sanità e anche questo è un aspetto interessante».

Questo dimostra che le donne in realtà hanno un interesse per le materie scientifiche, nonostante siano solo il 15% dei laureati nelle STEM

«Questo è il famoso concetto del soffitto di cristallo, molte ragazze sono portate a dedicarsi ad ambiti diversi da quello scientifico per una questione di educazione, di cultura che ha inciso sulle loro preferenze. C’è anche una qualche forma di pregiudizio poi su quelle ragazze che intraprendono una carriera STEM. È su questo fronte che va maggiormente guidata un’azione di cambiamento. C’è un tipo di educazione che porta le ragazze a maturare le loro inclinazioni lontane dal mondo scientifico e questo fenomeno parte dalle famiglie, dagli stereotipi cui siamo esposti tutti i giorni, dalla televisione ai social network. Non è che ci sono molti blog di ragazze scienziate, ce ne sono molti di più di ragazze che si truccano. E questo purtroppo incide».
«Se in famiglia si trova uno stimolo per intraprendere una carriera scientifica secondo me le ragazze lo colgono, perché questo in qualche modo aumenta l’autostima personale. Noi come università tecnica spingiamo tantissimo per avere una componente femminile alta. E negli ultimi anni è cresciuta tantissimo, anche grazie a studentesse straniere, che sono una componente importante. Noi puntiamo tanto anche nel cercare di far lavorare gli studenti in gruppi eterogenei in cui ci sia sempre anche la componente femminile, in modo da creare contaminazione tra i generi».

È anche un discorso culturale più ampio, che riguarda non solo le materie scientifiche, ma in generale il mondo del lavoro

«Nel nostro Paese intraprendere una carriera autonoma è difficile e in qualche modo penalizzato. Si parla tanto di riduzione delle natalità, ma è proprio dovuta alla mancanza di servizi che possano rendere più conciliabile una condizione naturale come la maternità con il lavoro. Mancano elementi fondamentali come una strutturazione della maternità diversa, che includa di più gli uomini e che consenta alle donne di non perdere il treno».
«Perché in Italia la maternità è una condizione che ti toglie un po’ di mezzo e quando si rientra ci si trova con un ritardo da recuperare. Mancano strutture di assistenza, come gli asili nido aziendali o kindergarten, a supporto delle famiglie. Da questo punto di vista abbiamo una carenza impressionante, specie al Sud Italia. È chiaro che tutto questo è ancora più vero per una donna che voglia intraprendere una carriera in materie scientifiche, una carriera che richiede sacrifici e tanto tempo da dedicare allo studio e al lavoro».

Questo spiega anche la differenza tra l’età media dei founder uomini e quella delle donne?

«Sì, questo è un dato che noi abbiamo sottolineato. L’età media delle donne è esattamente quei due-tre anni più alta di quella degli uomini (43,71 contro 40,99). È esattamente quel lasso di tempo che corrisponde ai primi due-tre anni di maternità di una donna finché non ha la possibilità di lasciare i figli all’asilo. È un’evidenza matematica di come le donne perdano quell’arco di tempo. E questo invece a fronte di dati molto interessanti a proposito del titolo di studio: le founder donne sono mediamente più istruite degli uomini. Hanno una laurea specialistica nel 46% dei casi a fronte del 39% degli uomini. Un master nel 27% dei casi rispetto al 16% degli uomini. Un dottorato di ricerca nel 19% dei casi contro il 16% degli uomini».

In base ai suoi studi, a un investitore converrebbe investire in startup con donne?

«Esiste una ricerca della Silycon Valley Bank che ha rilevato su campioni di startup fondate anche da donne negli Stati Uniti che quelle che hanno una componente femminile al proprio interno ricevono più investimenti rispetto a quelle composte solo da uomini e questo legame esiste anche poi con le prestazioni della startup stessa. La nostra ricerca ha rilevato che quelle che sono le startup guidate da un gruppo misto in termini di competenze (umanistiche e scientifiche) hanno più probabilità di ricevere finanziamenti, quindi in generale la diversità premia le prestazioni».

Sono interessanti anche i dati riguardo i collaboratori delle startup tecnologiche

«Sì, il paradosso è che abbiamo poche fondatrici donne, ma poi all’interno delle startup ci sono tantissime donne. Questo è un buon segnale. Magari sono ragazze che un domani daranno vita alla loro startup, ma questo dimostra che l’interesse nel lavorare nel mondo hi-tech sta crescendo».

Per sfondare il tetto di cristallo serve un cambiamento culturale. Ma la crescita dell’imprenditoria femminile di questi ultimi due anni dimostra che qualcosa si sta muovendo. E anche il PNRR con la Missione 5 “Inclusione e coesione” va in questa direzione. Ci sono anche altri strumenti?

«C’è molto da fare. Famiglia, scuole e università devono prendersi carico del tema. E quindi, stimolare la componente femminile ad apprezzare le materie scientifiche, farle proprie e farne una carriera. Poi, come detto, bisogna lavorare sui servizi di assistenza alle donne e alle famiglie. Esistono poi una serie di incentivi governativi, c’è un fondo per l’imprenditoria femminile con una quotazione totale di 400 milioni di cui sono stati stanziati già 200 milioni. Fondi che arrivano dal PNRR e che si articolano in una serie di componenti come agevolazioni fiscali, finanziamenti a fondo perduto, formazione».
«Poi esiste tutta una serie di associazioni private che da tempo si sono mosse, come per esempio Angels for Women, che è un finanziatore informale rivolto prevalentemente a startup femminili; esiste Gamma Donna, La carica delle 101 ed esiste anche il primo acceleratore dedicato appositamente all’imprenditoria femminile che si chiama FoundHer. Quindi ci sono iniziative private che cercano di sostenere le donne soprattutto in termini di role modeling, cioè un’attività di coaching, di affiancamento. Perché spesso le donne hanno bisogno di essere un po’ incoraggiate, anche se hanno tutte le competenze al loro interno. Un’altra iniziativa interessante, proprio del nostro incubatore Polihub, è Mommypreneurs, progetto che ha il fine di sostenere l’occupazione femminile e giovanile sia con finanziamenti sia con programmi di formazione. Le iniziative private sono tante…».

Servirebbe una gestione unitaria, una comunicazione integrata che faccia sapere che ci sono opportunità e agevolazioni

«Ormai è comprovato che la collaborazione tra pubblico e privato è vincente e può portare a grandissimi risultati. Anche in questo caso sarebbe auspicabile e, anzi, necessaria. Il settore pubblico potrebbe prendersi in carico non solo di stanziare i 400 milioni, ma anche di entrare nel merito di queste associazioni per comunicarle, per sostenerle, per aprire anche dei canali ulteriori che l’associazione privata da sola non può avere. Manca una coesione, una convergenza tra pubblico e privato su questo tema. Al momento sono canali paralleli che invece godrebbero di amplificazione e arricchimento, se confluissero».    ©

Articolo tratto dal numero dell’1 marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!