sabato, 27 Aprile 2024

Salza, RINA: «Con le ISO più valore e considerazione dagli stakeholder»

DiEdoardo Lisi

15 Luglio 2023
Sommario
ISO

Un alleato c’è. A favorire la diffusione dei principi ESG e avviare una rivoluzione del sistema economico e finanziario ci pensano le certificazioni ISO. Documenti rilasciati da International Organization for Standardization, non obbligatori, che attestano la ​​conformità dei sistemi di gestione dei processi aziendali a standard dettati da specifiche norme tecniche. «Le ISO sicuramente aumentano il valore e anche la considerazione da parte degli stakeholder», dice Paolo Salza, Chief Risk, ESG & Compliance Officer di RINA, multinazionale di ispezione, certificazione e consulenza ingegneristica. È in dirittura d’arrivo un’iniziativa molto importante che rientra nella lista degli IPCEI (Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo), finanziata dall’Unione Europea. Si tratta di un progetto che verrà sviluppato da RINA-CSM (Centro Sviluppo Materiali) e interverrà su uno dei settori hard to abate (difficili da decarbonizzare): quello dell’acciaio. L’obiettivo è realizzare un impianto pilota innovativo a riduzione diretta che utilizza idrogeno in sostituzione del carbone e del gas naturale», rivela Salza.

Le certificazioni ISO possono rappresentare un valore aggiunto per l’azienda?

«Al di là degli aspetti di natura etica, di scelta organizzativa o di volontà di procedere con il continuo miglioramento della performance dell’azienda, è importante anche trovare delle motivazioni, stimoli che possono derivare dall’adozione delle certificazioni. Esistono 5 termini per spiegare il valore che possono avere oggi per un’azienda».

Quali sono i termini che descrivono il valore delle ISO?

«Distintivo, qualificante, abilitante, premiante e di semplificazione. Per quanto riguarda i primi due, avviare un percorso di certificazione vuol dire distinguersi dalle imprese concorrenti, posizionarsi sul mercato potendo contare su una testimonianza dell’impegno preso su diversi temi, dalla gestione dell’ambiente (14001 – numero relativo al tipo di certificazione) alla salute e sicurezza sul luogo di lavoro (45001), il rischio e i sistemi di anticorruzione (37001). Nell’ambito dei Contratti Pubblici, la certificazione di anticorruzione (37001) diventa un fattore abilitante, senza il quale non si può partecipare alle gare. Nel settore delle costruzioni, l’impresa che vince l’appalto deve essere in possesso di un certificato ISO 9001, che ne dimostra la qualità. Inoltre, se in un’azienda c’è parità di genere, ottiene un vantaggio aggiuntivo durante le gare pubbliche e uno sconto dell’1% sugli oneri previdenziali. Pensiamo che una società che rilascia certificazioni, come RINA debba dare l’esempio in prima persona. Per questo, abbiamo ottenuto le certificazioni ai sensi delle ISO 9001, 14001, 27001 e 37001».

Quali aspetti fanno più fatica a prendere piede? Qual è il ruolo delle certificazioni ISO?

«C’è ancora da lavorare dal punto di vista della semplificazione amministrativa. L’obiettivo è far sì che il legislatore riconosca un vantaggio alle aziende certificate, indirizzando i controlli su quelle non certificate.

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ACCREDIA, organismo di accreditamento nazionale che abilita i soggetti certificatori, produce documenti (quaderni) che testimoniano i benefici della certificazione anche in termini di efficacia. Ad esempio, le società dotate di certificazione ISO 45001 hanno un numero di incidenti sul lavoro inferiore rispetto a quelle non certificate e questi sono meno gravi. Analogamente, le società dotate di un certificato ISO 27001 hanno una miglior postura di cyber-security».

Quanto è importante oggi la gestione del rischio per un’impresa?

«Parto dal presupposto che in realtà ogni giorno facciamo continuamente analisi di rischio, spesso senza rendercene conto. Ogni nostra decisione porta sempre dietro di sé una valutazione. Il tema è, da un lato, averne la consapevolezza. Dall’altro, è importante strutturare e ingegnerizzare questo processo. Occorre identificare i fattori di rischio e calcolare quanto è alto il cosiddetto rischio inerente: se è troppo alto occorre immediatamente adottare misure di mitigazione».

Le aziende ne sono consapevoli?

«Per le più grandi, specie se quotate, è requisito di base. Sono infatti obbligate ad avere un Comitato Rischi. Un organismo che ha ruolo consultivo e aiuta il Consiglio di Amministrazione a fare scelte consapevoli. Ad esempio, se si decide di aprire un’attività in un determinato Paese, non si deve fare solo una valutazione di natura economica, ma sarà necessario anche valutare il rischio Paese, le opportunità, regole e condizioni di lavoro. Oggi la consapevolezza sull’importanza dell’analisi di rischio c’è. La crisi energetica seguita alla guerra in Ucraina ha avuto ripercussioni più gravi su quei Paesi, prima fra tutti la Germania, che avevano scelto di fare affidamento sul gas russo puntando su un unico fornitore.

Una scelta sbagliata perché dettata da una mancata valutazione del rischio. Si è sottovalutato il contesto politico del Paese e il fatto che negli anni passati la Russia ha già chiuso spesso il rubinetto del gas, mettendo l’Europa in difficoltà in termini di offerta, oscillazioni dei prezzi etc. Inoltre, si sarebbe potuti intervenire con misure di mitigazione, ad esempio iniziare un percorso di diversificazione delle fonti e dei fornitori. Azioni che siamo costretti a intraprendere oggi in fretta e furia. Qualcuno potrebbe dire che siamo comunque riusciti a riorganizzarci, ma dobbiamo ragionare anche in un’ottica di prevenzione, non sempre di reazione».

L’analisi del rischio può aiutare a fare questo?

«Aiuta ad agire in maniera preventiva anche in contesti in cui è molto difficile reagire. Serve proprio a organizzare il nostro pensiero individuando un approccio sistematico e a cercare di identificare le azioni da compiere con largo anticipo. Un elemento centrale del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è proprio l’analisi di rischio. Le aziende dovranno cercare di prevedere con largo anticipo il possibile arrivo di una crisi. E ci sono tutti gli elementi perché questa sensibilità maturi anche nelle imprese di piccole e medie dimensioni».

L’ultimo report di Lefebvre Sarrut evidenza che il livello di maturità delle aziende europee riguardo agli ESG è inferiore alle aspettative dell’UE. Quali sono gli ostacoli?

«Il tema è estremamente complesso. È vero che non c’è ancora un’adeguata consapevolezza delle aziende sull’importanza degli ESG. Però questo è legato anche, per certi versi, a un eccesso di iniziative che vanno chiaramente tutte nella stessa direzione, oltre che di rating. Questo in qualche modo crea un po’ di confusione e anche una certa difficoltà nell’identificare le modalità con cui misurare il percorso di avvicinamento che le imprese fanno su queste tematiche. Quindi, c’è un tema di velocità di cambiamento, iper regolamentazione e anche difficoltà di identificare indicatori con cui misurare alcune tematiche. Tuttavia, c’è stata una grande accelerazione politica grazie alla scelta strategica della Commissione Europea di individuare nella finanza la leva più forte per far procedere questa transizione verso la sostenibilità».

Cosa si può fare per accelerare ulteriormente sugli ESG?

«La Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) dell’Unione Europea rappresenta un passo avanti, che mira a portare le aziende a stilare una reportistica di sostenibilità in cui rendano pubbliche le loro iniziative. A partire dal 2025 scatterà l’obbligo per le società con più di 25 dipendenti. L’obiettivo della direttiva europea è far sì che le banche, i fondi di investimento o private equity che immettono capitali delle aziende vadano a guardare proprio la sostenibilità delle imprese. Oggi quando un’impresa si presenta a una banca la parte ESG è molto importante, gli osservatori dicono che oggi questi principi influenzano le scelte per il 50%. In effetti la finanza sta indirizzando le sue scelte anche sulla base della performance ESG. Il report di sostenibilità farà riferimento alla tassonomia europea per individuare in modo univoco tutte quelle attività, in termini di ricavi, CAPEX e OPEX, che possono essere definite sostenibili. Le banche e gli investitori potendo scegliere sceglieranno quelle imprese con un rating ESG più alto».

Ci sono altre iniziative interessanti da parte dell’Unione Europea?

«Esiste un’altra direttiva importante, sulla Due Diligence, che impone alle aziende con più di 250 dipendenti di fare delle verifiche sulla loro catena di fornitura. Questo vuol dire che tutti gli elementi della filiera, anche imprese piccole o piccolissime, dovranno dimostrare al cliente la loro attenzione alla sostenibilità. Una metodologia interessante, che non impone un bilancio di sostenibilità a un’azienda di piccole dimensioni ma la induce, come fornitore, a intraprendere un percorso virtuoso. I clienti, potendo scegliere tra due fornitori, sceglieranno quello più sostenibile».

A proposito di ESG, mi sembra che spesso ci si concentri sulla “E” di ambiente (Environmental), tralasciando la Governance e l’impatto sociale. Due aspetti imprescindibili per il benessere dell’azienda, dei dipendenti e dei clienti. Cosa ne pensa?

«Oggi la situazione è varia, magari si tende a privilegiare la E di environment, anche per ragioni di oggettiva urgenza, o la S di sostenibilità, mentre la governance oggi è ancora un oggetto un po’ misterioso. Secondo me il percorso avviato è a buon punto, è partito molto forte prima della guerra in Ucraina. In molti hanno temuto che il conflitto potesse far sparire la sostenibilità dalle agende politiche, in realtà non è successo, anzi, in risposta alla guerra c’è stata un’accelerazione. Il problema dell’approvvigionamento energetico ha offerto l’occasione per spingere sulle rinnovabili e sulla diversificazione delle fonti. Ad esempio, in Italia adesso si parla anche di investimenti sulla produzione di energia da fonti rinnovabili e di Industria 5.0, replicando l’esperienza di Industria 4.0 coniugando la digitalizzazione con la sostenibilità». ©

📸 credits: Canva

Articolo tratto dal numero del 15 luglio 2023. Abbonati!

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